di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine
Di Bello, il suo prof delle superiori, Eupremio Guadalupi, sostiene che lei fosse il più bravo della classe in inglese. Non è che stava già studiando da arbitro internazionale anche prima di prendere il diploma?
“Il professore è troppo buono. No, non ero una cima in inglese, anche se lui continua a complimentarsi. Anzi, con l’inglese non andavo molto d’accordo. E poi ancora non avevo iniziato ad arbitrare, ho cominciavo quando frequentavo il quinto superiore”.
Marco Di Bello, 36 anni, l’inglese nel nuovo anno dovrà parlarlo fluentemente visto che è entrato nel selezionato club dei dieci arbitri italiani di serie A (su 22 complessivi) abilitati a dirigere partite internazionali. Prende il posto di Nicola Rizzoli, mica uno qualunque. Terzino sinistro fino a quindici anni (“ma poi mi resi conto che non sarei mai diventato un campione”), prima gara arbitrata nel 1999, Cisternino-Fasano 4-2 (“ero così emozionato che dimenticai la monetina negli spogliatoi e per la scelta del campo feci fare a tocco ai due capitani”). Fino ad oggi ha diretto 66 partite di serie A ed è stato il primo a sperimentare il Var (la moviola degli arbitri, in uso ufficialmente da questa stagione) il 30 settembre di un anno fa, durante Milan-Sassuolo. Con lui c’era Daniele Doveri di Volterra, anch’egli promosso arbitro internazionale in questi giorni, al posto di Paolo Tagliavento.
“Sì, l’inglese ho dovuto impararlo bene. Nel 2013 ho partecipato a un corso organizzato dall’Uefa: sei mesi di lezione via Skype con una madrelingua e poi altre lezioni on line. Ho perfezionato così”.
Diventare arbitro internazionale può essere considerato un traguardo finale o è ancora un gran premio della montagna? E’ la realizzazione definitiva di un sogno per un arbitro?
“Non posso definirlo la realizzazione di un sogno perché neanche ce l’avevo questo sogno. Quando cominci ad arbitrare e sei nelle categorie inferiori nemmeno immagini di poter arrivare in serie A. Figurarsi se uno può solo ipotizzare di diventare arbitro internazionale. Ancora oggi devo prenderne contezza”.
Come ha saputo della nomina?
“Ero a Crotone come addizionale e mi ha chiamato al telefono Rizzoli che adesso è il nostro designatore. Subito ho telefonato a mia moglie e le ho detto: Carla, da oggi chiamami referee (arbitro in inglese, ndr). Poi ho avvisato anche i miei”.
Dal 2018 quindi le toccano le partite di coppe europee.
“No. Faremo il primo raduno a fine gennaio a Malta organizzato proprio per i neo immessi. Poi cominceremo la trafila partendo dalle nazionali giovanili, under 19 e under 21. Per le partite di coppa all’inizio può capitare una convocazione come addizionale. Ma ci daranno il tempo di crescere, il calcio internazionale come si potrà intuire presenta molte difficoltà in più”.
A questo punto l’obiettivo finale della sua carriera potrebbero essere i campionati del mondo. Quelli in Russia sono troppo vicini, potrebbe puntare a quelli del 2022?
“La classe arbitrale italiana è di altissimo livello. Generalmente chi riesce ad arrivare ai mondiali lo fa a fine carriera. Tenuto conto che io ho ancora davanti circa nove anni penso che potrò giocarmi tutte le mie chance nei Mondiali del 2026”.
Ha parlato della telefonata a sua moglie. Quanto conta il supporto della moglie e della famiglia per un arbitro, specialmente quando torna a casa dopo una partita in cui è consapevole di aver commesso qualche errore?
“Il supporto di mia moglie, ma anche dei miei genitori è fondamentale. Mio padre, dopo ogni partita, anche se ho compiuto un errore lampante, mi manda dei messaggini negando spesso l’evidenza, cercando di consolarmi. Carla mi è stata a fianco praticamente in ogni fase della mia carriera. L’ho conosciuta nel 2003 durante la festa di compleanno di un mio cugino, in quel periodo facevo l’arbitro in Eccellenza. Ogni tanto veniva a seguirmi: alla fine di un Monopoli-Taurisano mi vide lasciare il campo sotto la scorta della polizia”.
Non c’è stato un momento in cui le ha detto: molla, è troppo pericoloso?
“Mai, non ha mai interferito. Anzi mi ha sempre spronato a fare meglio, a superare i momenti di difficoltà. Anche grazie a lei sono migliorato molto, ho imparato a non abbattermi e invece a reagire subito, lavorando su ogni errore commesso per cercare di capire per quale motivo ho sbagliato e per non ripeterlo in futuro: comprendere se in un’occasione analoga dovrà spostarmi sul campo diversamente o chiedere la collaborazione dell’assistente”.
Pensa che la nuova tecnologia televisiva e la novità del Var possano portare a un ulteriore livello di esasperazione il gioco del calcio e anche una maggiore tensione per voi arbitri?
“Il Var è un supporto tecnologico ma le decisioni le continuiamo a prendere noi arbitri, quindi non può che essere un aiuto importante in caso di incertezza, ma non potrà mai sostituire in nessun modo il direttore di gara. Oggi siamo più tranquilli, perché se sbagliamo ci sono ottime possibilità che il collega del Var arrivi ad aiutarti per correggere la decisione. Quanto alla tecnologia televisiva, essa non può che far bene al calcio. Questo gioco si è evoluto in tecnica e rapidità, non si poteva pensare di gestirlo come si faceva 40 anni fa. Personalmente la vivo come una sfida, ogni volta che scendiamo in campo per arbitrare: la tv ha venti telecamere puntate sulla partita e noi, in quattro, dobbiamo essere più bravi di quelle telecamere. E’ una sfida che non può che farci crescere”.
Sua moglie le sta accanto da quando eravate ragazzini, ma ora l’arbitro di Bello ha una tifosa in più.
“Sì, Matilde ha due anni e mezzo e ormai ogni volta che scendo in campo si piazza davanti alla tv con un fischietto rosa che le ho regalato. E all’inizio della partita, quando siamo schierati a centrocampo, mi cerca e mi indica. Poi va fischiando in giro per la casa. E ora siamo in attesa, un fratellino o una sorellina e quindi un altro fischietto da comprare”.
Ma quando sta a casa un arbitro è come il tipico italiano medio, incollato alla tv a vedere partite di pallone?
“No, da quando c’è Matilde solo cartoni animati. Ho imparato i nomi di tutti i personaggi e le sigle a memoria. Le partite le seguo solo quando sono in viaggio. A casa è una piccola oasi di serenità”.
Lei ha scelto di vivere a Brindisi, anche se questo implica quasi sempre un aereo in più da prendere e la consapevolezza di stare lontano dal cuore del calcio che conta.
“L’ho fatto perché sono molto legato alla nostra città. Non vorrei mai che il mio nome non venisse abbinato a quello di Brindisi, né vorrei mai cambiare sezione Aia, perché ci sono legato e fa parte della mia vita. Ogni quindici giorni teniamo riunione nella sede di via Carmine, siamo in 150 tra osservatori e arbitri della provincia di Brindisi, con il presidente Pasquale Santoro. Periodicamente porto dei videoclip che io stesso realizzo in cui mostro alcune mie decisioni, qualche volta anche sbagliate. Le esaminiamo insieme, le discutiamo, è un momento di crescita per tutti”.
C’è all’orizzonte un altro Di Bello tra i giovani arbitri brindisini?
“Spero di sì, io lo dico sempre nelle riunioni che non sono immortale. Attualmente abbiamo tre assistenti in serie C, sono convinto che il movimento possa crescere anche grazie a ciò che io posso dare, alla voglia che avranno di seguire la mia strada”.
A proposito di strada, come vive la sua popolarità a Brindisi?
“Devo dire che sia a Brindisi che a Tuturano, che è il paese di mia moglie, il rapporto con la gente è fantastico. Sono trattato come un personaggio famoso, anche se poi di famoso non c’è davvero nulla. La cosa che mi fa sorridere e che in tanti pensano di poter conoscere la mia fede calcistica e mi attribuiscono una squadra piuttosto che un’altra. E a tutti rispondo con la verità, ossia che io non tengo per nessuna squadra perché sono un arbitro”.
Cosa le domandano più spesso?
“Sono tutti curiosi di conoscere il retroscena di questo mondo, di sapere qualcosa sul carattere dei giocatori più famosi, di sapere come funzionano le mie trasferte. Ma l’aspetto più bello è che mai nessuno si è permesso di sottolineare un mio errore o di fare una polemica. Ecco, devo dire che la città mi coccola parecchio, mi difende perché ne porto i colori in giro per l’Italia e probabilmente perché la rappresento con dignità e correttezza. So che molti brindisini ora tifano, oltre che per la loro squadra, anche per il loro arbitro”.
Cosa fa durante la settimana per preparare le partite?
“Quattro sedute d’allenamento settimanali sulla pista di Masseriola con Gianluca Carriere che mi segue da sette anni: due ore per curare la rapidità e la velocità. E due volte alla settimana sono in palestra per la rifinitura muscolare. La credibilità di un arbitro è proporzionale alla sua capacità di farsi trovare il più vicino possibile all’azione. Una decisione presa trovandosi a 60 metri dal pallone è difficile che venga accettata, anche quando è giusta. E poi da due mesi ho ripreso a lavorare come consulente finanziario, ma da libero professionista. E’ un modo anche per staccare. Tutto il resto del tempo sono con Carla e Matilde, in casa o in giro per parchi”.
Brindisi ha un arbitro di serie A, ora adesso anche internazionale, ma non ha una sua squadra di calcio in una categoria adeguata. Pensa che sia lo specchio di una città che stenta a decollare?
“Sono convinto che tutto vada di pari passo. Avere un arbitro di serie A che si allena su una pista ormai fatiscente e nell’impossibilità di usare gli spogliatoi non è un segnale incoraggiante. Quando mi alleno consento ai giovani arbitri che lo desiderano di effettuare con me la preparazione. Alcuni arrivano da Francavilla o da altri comuni della provincia. Quando finiamo ci mettiamo in auto e andiamo a farci la doccia a casa perché lì non c’è da anni acqua calda. Quella struttura rispecchia la nostra città. E non me la voglio prendere con i politici, con gli amministratori. La colpa è di noi brindisini, io in primis, perché ognuno di noi potrebbe fare qualcosa di più. L’assenza della squadra di calcio è lo specchio di una città in cui si riesce a fare poco, persino rispetto a realtà vicine come Ostuni o Mesagne che stanno piano piano completando il loro percorso di crescita. La nostra Brindisi sembra maledetta, non so quale sia il suo virus. Ma mi piacerebbe che tra vent’anni ai miei figli possa mostrare con orgoglio una città diversa e ci dobbiamo impegnare tutti per cercare di cambiarla. Ognuno facendo del suo meglio”.