di Marina Poci per il7 Magazine
Sul tavolo del tinello erano poggiate le pentole colme di marmellata bollente: da brava donna di casa, la signora Antonia sapeva che avrebbe dovuto aspettare che si raffreddasse prima di poterla travasare nei barattoli. La radio era rimasta accesa (chissà, magari la stava ascoltando Daniela), così come le finestre erano semiaperte perché, si sa, il settembre pugliese è così mite che è piacevole sentirne entrare in casa la brezza dolce.
Stando così le cose, certamente non si poteva pensare che avessero pianificato la loro sparizione, Antonia Calò e Daniela Romano, madre e figlia mesagnesi di sessanta e ventisei anni, uscite dalla loro abitazione di via Pacinotti a Mesagne nel pomeriggio del 24 settembre del 1997 e mai più tornate. Ne fu certa immediatamente Annarita, figlia e sorella delle donne scomparse, che ancora oggi, a distanza di ventiquattro anni, ha fiato in gola per ribadire: “Non sono scappate dirette chissà dove, come molto superficialmente per un certo periodo si ipotizzò. Mia madre e mia sorella sono uscite da casa per tornarci dopo poco. Le conosco abbastanza da sapere che, se la loro intenzione fosse stata quella di allontanarsi, non avrebbero lasciato la casa in quelle condizioni”.
Fu proprio Annarita Romano, la mattina del giorno successivo, a denunciare la scomparsa delle parenti, allontanatesi dalla loro abitazione a bordo dell’auto di Daniela, una Ford Fiesta bianca targata BA D02327 che non fu mai ritrovata.
Il caso, cui la trasmissione di Rai Tre “Chi l’ha visto?” diede ampia risonanza, scosse l’opinione pubblica nazionale e turbò non poco anche gli abitanti di Mesagne. Nessuno, però, fu turbato a sufficienza da parlare con gli investigatori e rilasciare testimonianze che fossero utili all’inchiesta: “Più che altro, molte dichiarazioni si ridussero a pettegolezzi senza nessun fondamento sulla condotta di vita di mia sorella”, puntualizza comprensibilmente contrariata Annarita.
Nei giorni precedenti alla scomparsa, e precisamente a partire dal 16 settembre, Daniela Romano aveva preso in locazione un appartamento in un residence nella marina di San Cataldo, in provincia di Lecce, nel quale risulterebbe aver passato qualche notte prima di allontanarsi da Mesagne. Le chiavi di quell’appartamento furono rinvenute da Vincenzo Romano, marito e padre delle scomparse, circa un anno e mezzo dopo la sparizione delle donne: erano nel garage di casa Romano, insieme ad una ricevuta dell’affitto intestata a Daniela, ad un certificato di deposito al portatore con una discreta somma, probabilmente i risparmi derivanti dalle precedenti attività lavorative, e a poco più di 300.000 lire in contanti. Quando la sorella Annarita si recò sul posto per prelevare gli effetti personali della sorella, trovò lì anche degli indumenti maschili, prontamente consegnati ai poliziotti del locale commissariato di Mesagne. “Si erano fidati dei colleghi leccesi, i quali avevano dichiarato di non aver rinvenuto niente di utile alle indagini. Mi chiesi, e continuo a chiedermi, come potesse essere irrilevante trovare, nella casa presa in locazione da una persona scomparsa, degli abiti non appartenenti a lei, per di più maschili”, insinua Annarita ricordando i propri dubbi di quei momenti. Tanto più che la chiave della scomparsa potrebbe risiedere proprio nell’identità dell’uomo, mai identificato, che Daniela frequentava da qualche mese. Dieci giorni prima, infatti, a casa Romano era arrivata la telefonata di una persona di sesso maschile, qualificatosi con il nome di Giuseppe, il quale comunicò alla signora Antonia di avere accompagnato poco prima Daniela in un ospedale di Lecce. Al fatto non seguì alcun riscontro. Anzi, la stessa Antonia riferì agli altri familiari di avere verificato che la notizia non era vera.
“Non sono stati questi gli unici casi in cui di accertare fatti e dichiarazioni mi sono dovuta occupare io, potrei citarne moltissimi altri. Sono amareggiata per l’approssimazione e l’inconcludenza delle indagini, anche perché, mi costa dirlo, non sempre sono state vagliate con accuratezza tutte le piste venute fuori. Ma quello che all’epoca mi stranì più di tutto fu la scarsa – per non dire assente – partecipazione della comunità mesagnese di quegli anni che, invece di collaborare con le forze dell’ordine e di mostrarsi partecipe della nostra angoscia, addirittura avvertiva fastidio per il clamore mediatico che la vicenda aveva sollevato. Immagino che il tessuto sociale di Mesagne in quegli anni non fosse pronto a gestire un caso avente quell’importanza sui mezzi di informazione, anche perché venivamo dal periodo forse più buio della nostra storia recente. Forse non c’erano la sensibilità e la maturità adatte a rendersi utili di fronte ad un evento di quella portata. Forse non c’è mai stato il reale interesse a capire come fossero andate le cose”, precisa Annarita.
Sulla scomparsa di Antonia Calò e Daniela Romano fu aperto dalla Procura di Brindisi un fascicolo contro ignoti, contestando, in mancanza del rinvenimento dei corpi, il delitto di sequestro di persona. Quelle indagini non si tradussero mai in processo e il relativo procedimento penale fu archiviato nel 2000, dopo che fu dichiarata dal Tribunale di Brindisi, a più di dieci anni dalla scomparsa, la morte presunta delle donne.
Per alcuni mesi, nonostante fosse chiaro, dalle condizioni in cui fu trovata la casa, che Antonia e Daniela erano uscite da casa con l’intenzione di farvi rientro poco dopo, si parlò di allontanamento volontario: a favore dell’ipotesi della fuga voluta (e addirittura premeditata) ci fu la testimonianza di un meccanico mesagnese (nel frattempo deceduto) che raccontò ai carabinieri che pochi giorni prima la signora Antonia era stata da lui e gli aveva chiesto di effettuare un controllo approfondito sulla Fiesta bianca perché, essendo la famiglia in procinto di intraprendere un lungo viaggio, bisognava accertarsi delle buone condizioni dell’automobile. Anche rispetto a questa teoria, Annarita Romano ha qualcosa da osservare: “Posso confermare che quel signore era il meccanico a cui la mia famiglia si rivolgeva. Quello che nessuno si è preoccupato di tenere in considerazione è che mia madre era una persona di una certa età, che aveva viaggiato poco e niente e che considerava un lungo tragitto anche la strada che da Mesagne porta a Bari. E, a proposito di mia madre, tengo a dire che l’unica cosa certa di tutta questa vicenda è la sua estraneità alle questioni che ne hanno causato la sparizione. Sono convinta, e anche gli investigatori lo sono stati sin da subito, che tutto parta da Daniela e che mia madre si sia trovata coinvolta. È successo qualcosa che riguardava mia sorella, qualcosa che non è mai stato accertato, visto che non si è mai saputo nemmeno quali fossero le ultime persone con le quali Daniela aveva parlato al telefono. Mia madre era presente perché l’aveva accompagnata e hanno dovuto eliminare una scomoda testimone”.
In quegli anni i giornali titolarono con “Madre e figlia svanite nel nulla”, “giallo irrisolto”, “inquietante mistero”, espressioni usate e abusate in ogni caso di sparizione di persone, ma quanto mai calzanti in questo caso, nel quale, come sostiene la Romano, “anche circostanze chiaramente semplici da appurare non venivano esaminate con cura”.
Tra pochi giorni, il 6 ottobre, Daniela Romano compirebbe cinquant’anni. La signora Antonia ne avrebbe adesso ottantaquattro. La speranza che siano vive ha abbandonato Annarita ormai da molto tempo, ma il ricordo non si è affievolito: “Mi è stato detto che pochi giorni fa la trasmissione “Chi l’ha visto?”, i cui redattori anche a distanza di così tanti anni mi sono vicini con affetto e grande professionalità, ha rilanciato con un post su Facebook la scomparsa di mia madre e di mia sorella. A questo punto delle cose, credo che anche gli appelli servano a poco. La verità si saprà soltanto se qualcuno vorrà scaricarsi la coscienza. In questo momento a me restano soltanto i ricordi. Se ne parlo, non è perché confidi in una soluzione del caso, ma solo perché non voglio che si spengano i riflettori”, conclude Annarita Romano.