
Si è diplomato all’Istituto professionale per i Servizi Sociali “Francesca Laura Morvillo Falcone” di Brindisi parlando per circa un’ora di minori stranieri non accompagnati e di soggetti richiedenti la protezione internazionale. Una tematica che appare del tutto in linea con l’indirizzo di studi da lui prescelto… se non fosse che quanto discusso dal ventenne sierraleonese Chernor Sbah non è frutto di ricerche sul web, né di testimonianze ascoltate in televisione: quel percorso multidisciplinare di scottante attualità Sbah l’ha vissuto sulla sua viva pelle di adolescente e giovane uomo e ancora oggi, a distanza di quattro anni esatti dal suo arrivo in Italia, ne porta addosso tutto il senso e il peso. Durante un’assolata mattina di giugno, con tutte le precauzioni imposte dalle misure di distanziamento sociale causate dalla pandemia da Covid-19, lo ha esposto alla commissione nominata per presiedere gli esami di maturità 2020, dando prova di brillanti capacità e di grande forza d’animo. “Ho raccontato di quelli che scappano dai loro Paesi a causa dell’instabilità politica, della guerra, delle malattie, della fame, per cercare in Italia migliori condizioni di vita. Non ho parlato specificamente di me, ho parlato di tutti”, spiega semplicemente.
Dalla natale Waterloo, piccola cittadina della Sierra Leone il cui nome appare di per sé presagio di sconfitta, alla scuola brindisina dedicata a una giudice che per tutta la vita si è occupata di minori problematici, Sbah ha conquistato la sua rivincita nei confronti di una esistenza complicata, per certi versi disperata, eppure ricca di coraggio e di umanità.
Se la parola “resilienza” avesse un volto, sarebbe quello aperto e sorridente di questo ragazzo che acconsente a parlare soltanto a patto che l’intervista avvenga attraverso videochiamata, “così noi ci vediamo negli occhi”: perché lo sguardo è l’anticamera della fiducia e nel suo, dopo una certa iniziale resistenza, si leggono una serena consapevolezza di sé e il desiderio sincero di rendere il mondo partecipe della sua storia, così che possa essere di esempio per altri giovani che si trovano nella sua stessa condizione.
È il 14 febbraio del 2015 quando il sedicenne Sbah (“il mio nome è Chernor, ma tutti mi chiamano con il mio cognome”) lascia la Sierra Leone a seguito di pesanti conflitti della sua famiglia con i prepotenti vicini di casa. I suoi genitori erano stati accusati di essere malati di Ebola, il micidiale virus che dal 2014 al 2016 colpì l’Africa occidentale procurando più di 10.000 vittime. In realtà, i coniugi Sbah erano perfettamente sani, ma probabilmente tacciarli di essere malati, e quindi contagiosi, era il modo più certo e più veloce per eliminarli.
Non è un segreto per nessuno che in quegli anni in Africa la paura del virus mieteva più morti del virus stesso: i presunti ammalati, ritenuti potenzialmente untori, venivano persino uccisi in primitivi rituali al termine dei quali i corpi venivano bruciati per eliminarne ogni traccia e purificare l’ambente. Nell’ottica delle popolazioni tribali, essere stati contagiati era una colpa, quasi una sorta di punizione divina, e lo stigma sociale che ne seguiva poteva portare alla morte prima ancora della malattia. Per una triste ironia del destino, i genitori di Sbah, una volta ricoverati, si ammaleranno proprio in ospedale e moriranno da lì a poco. Spaventato all’idea di poter fare la fine dei suoi, Sbah accetta il passaggio di un amico e fugge in macchina in Guinea, da dove si sposta poi in Mali, Burkina Faso, Niger e Libia. In circa un anno e mezzo di vagabondaggio per l’Africa occidentale, Sbah vive di espedienti e accetta i lavori più umili per potersi guadagnare il pasto quotidiano.
L’amico di famiglia con il quale ha condiviso il lungo viaggio per arrivare in Libia (“una grande persona”, lo definisce Sbah), riesce a trovargli posto in un barcone che parte per l’Italia: “io non so se lui ha pagato anche per me, non me l’ha mai detto, so soltanto che grazie a lui sono salvo”.
Del suo arrivo da noi dice: “Non ricordo dove sono sbarcato e come sono arrivato a Brindisi: mi hanno raccontato che sono stato molto male durante il viaggio, quindi subito mi hanno portato in ospedale. Sono rimasto al Perrino per sette giorni. Mi sono svegliato circondato da persone bianche, non capivo dove fossi, non ricordavo molto di quello che era successo. C’era un dottore molto gentile che parlava inglese e che mi ha spiegato che mi trovavo in Italia e che mi stavano curando. Mi ha tranquillizzato, dicendomi che sarei guarito presto e che appena dimesso sarei stato affidato ai Servizi Sociali di Brindisi e ospitato presso una comunità di San Vito dei Normanni”.
Mentre racconta, nelle sue parole non c’è la minima stilla di autocommiserazione, né di rabbia per coloro che hanno avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta del mondo, né di quel compiacimento narcisistico che qualche volta anima i sopravvissuti che si sentono eroi: questo ragazzo, scampato all’Ebola che gli ha ucciso i genitori e scappato da fame e povertà, conserva dentro di sè la forza titanica del superstite che in quattro anni gli ha consentito di imparare l’italiano, conseguire la licenza media, inserirsi nel mondo del lavoro e contemporaneamente studiare per ottenere il diploma di maturità.
“All’inizio è stato molto difficile, sia in comunità che a scuola: avevano paura di me, non si fidavano. Io ero il diverso. Quando entravo nei bagni dell’istituto, i ragazzi uscivano. Quando arrivavo al distributore automatico per prendere un caffè, le ragazze si allontanavano. Mi sentivo sempre più solo, anche perché gli altri ragazzi di colore che c’erano nella mia struttura erano arrivati in Italia in gruppi di tre o quattro e si conoscevano bene. Era come se formassero una famiglia, venivano dagli stessi luoghi, parlavano gli stessi dialetti. Della Sierra Leone c’ero soltanto io. Più mi sforzavo di fare amicizia, più mi guardavano male. Non volevano mangiare seduti accanto a me, separavano i miei piatti e le mie posate perché avevano paura che avessi addosso chissà quali malattie. Poi le cose sono iniziate a cambiare. La presidente della comunità “Giocartacli” ad un certo punto, rendendosi conto che ero sempre più isolato, ha fatto un bel discorso a tutti gli altri ospiti. Ha detto: Sbah è un bravo ragazzo, dovete aiutarlo a imparare l’italiano chiacchierando con lui e facendolo partecipare ai vostri giochi. Così, piano piano, ho iniziato ad avere degli amici ed ad imparare la vostra lingua. Questo mi ha permesso di saltare il percorso di alfabetizzazione e iscrivermi direttamente alla scuola media. Sono stato promosso con la media del 7 e ho chiesto alla presidente della cooperativa se potevo proseguire gli studi. Lei mi ha accompagnato al Morvillo Falcone, dove avrei potuto ottenere la qualifica in operatore di servizi sociali, e ho scelto il corso serale, in modo da poter continuare a lavorare. Nel frattempo, infatti, ero stato inserito in un percorso di formazione-lavoro, detto progetto P.O.L.O., presso la pescheria dei fratelli Musa di San Vito dei Normanni, con cui ancora adesso collaboro”.
Al momento Sbah è indipendente, vive da solo a Carovigno e ogni mattina con il pullman raggiunge San Vito per unirsi allo staff dei fratelli Musa, che è ormai diventato a tutti gli effetti la sua famiglia. In Sierra Leone ha lasciato un fratello e una sorella con i quali già prima di fuggire non aveva rapporti particolarmente affettuosi. Adesso con loro non ha più alcun contatto, ma non ne sente la mancanza: “la mia famiglia è la famiglia Musa”, ripete più volte, “perché loro hanno avuto fiducia in me quando nessuno si fidava. Mi hanno permesso di lavorare mentre studiavo. Andavo in pescheria dalle 4 alle 11 del mattino e di pomeriggio frequentavo la scuola. Qualche volta è capitato che il pullman non passasse e loro sono venuti a prendermi per portarmi al lavoro e non farmi perdere la giornata. E voglio ringraziarli tanto anche perché, prima che facessi l’esame di maturità, mi hanno anticipato 15 giorni di ferie, per poter ripetere in tranquillità. Non mi hanno mai trattato come un lavoratore, per loro sono sempre stato una persona di famiglia. Stare con loro mi fa dimenticare tutto il dolore che ho vissuto in Sierra Leone”.
Alla domanda su quale posto riconosca come casa e se si senta italiano, risponde con la disarmante semplicità di chi non è abituato a pensare in termini di confini, geografici o ideologici che siano: “Da 4 anni l’Italia è la mia casa, sto benissimo qua. Non è importante se io mi sento italiano, è importante che in Italia ho famiglia e lavoro” e davanti a queste parole si frantuma ogni discorso identitario che faccia riferimento a criteri disumani quali razza e nazionalità. Sbah ci insegna inclusione e integrazione senza bisogno di ricorrere alla filosofia, alla sociologia e alla politica, gli basta soltanto azzardare, con lieve cadenza sanvitese, “mannaggia, m’aggiu scurdatu di quale poesia ho parlato durante l’esame!”.