«Nostro padre, ucciso per essersi ribellato al racket. E dimenticato»

Giuseppe Protopapa quella domenica di 30 anni fa era andato con la vecchia Fiat Panda nel suo terreno di contrada Scalella, nella zona del Cillarese. Di lì a poco sarebbe iniziata la vendemmia e i tendoni delle vigne andavano sfrondati. Doveva tornare a casa alle 10, come faceva ogni domenica mattina, per stare con la moglie e i suoi ragazzi: Paolo e Sergio che di lì a poco sarebbero ripartiti per l’Università. La dolce figlia Anna.
“Verso mezzogiorno, visto che tardava, io e Paolo montammo sulla Vespa e andammo a cercarlo”: Sergio Protopapa oggi ha 53 anni e lavora all’ufficio Passaporti della questura. Più volte interrompe il suo racconto, vinto dall’emozione, come se il dolore non si fosse mai smorzato e anzi si rinnovasse costantemente.
“Trovammo l’auto parcheggiata vicino al deposito degli attrezzi agricoli, chiamammo papà, lo cercammo nel vigneto. Era disteso sotto il tendone dell’uva, in una pozza di sangue. Decidemmo di portarlo a casa, per noi fu un atto di rispetto nei confronti di nostro padre, non potevamo lasciarlo un minuto di più in quel posto: lo caricammo sull’auto”. Era il 19 agosto 1990.
Giuseppe Protopapa aveva 60 anni e lavorava da quando ne aveva cinque, contadino figlio di contadini arrivati a Brindisi da Tricase negli anni Venti. In quella tragica estate 1990, negli stessi giorni in cui l’Italia sognava di vincere i Mondiali con i gol di Totò Schillaci, poche settimane prima (il 20 giugno) era stato ammazzato a Brindisi anche Ippazio Protopapa che di Giuseppe più che un cugino era un quinto fratello. Il tempo di scendere da casa, vicino via Sicilia, e di salire in auto per andare in campagna: una bomba innescata da una miccia e piazzata sotto la sua utilitaria lo aveva dilaniato.
In quegli anni la criminalità organizzata brindisina, impegnata nella più sanguinaria guerra di mala della storia locale, lasciava sul campo morti e feriti: le sparatorie non risuonavano solo di notte, anche per le vie del centro. Le bombe devastavano le attività commerciali di chi osava non sottomettersi al pagamento del pizzo. E anche chi aveva puntato alla famiglia Protopapa e chiedeva 250 milioni di lire altrimenti li avrebbe ammazzati tutti, si firmava “Sacra corona unita”. Ma con la “Scu” non aveva nulla a che fare.
I cinque fratelli Protopapa possedevano ognuno un proprio appezzamento di terreno. Giuseppe non era il più facoltoso della famiglia. Anzi. Molto più grandi delle sue erano le campagne di Luciano, in contrada Mitrano, e di Salvatore, in contrada Pigna Flores. Ma a Giuseppe arrivavano le richieste di denaro, forse perché era più comodo lasciarle nella sua buca delle lettere al volo, abitava in via Cappuccini: erano scritte con un normografo, uno di quei righelli in plastica con intagliate lettere dell’alfabeto che si possono acquistare in qualsiasi cartoleria. Ed erano sgrammaticate.
“Mio padre era un uomo che si era spaccato la schiena sin da bambino, non poteva concepire che i nostri risparmi fossero regalati alla malavita: c’era il fondo da mantenere e aveva voluto mandare me e mio fratello a studiare fuori, all’università”, ricorda Sergio. Ma soprattutto Giuseppe Protopapa era un uomo dai forti princìpi morali e in un periodo in cui spesso lo Stato veniva considerato ancora un avversario più che un ombrello protettivo, decise di prendere le lettere e andare dai carabinieri per denunciare tutto. Raccontò la sua storia e l’incubo della sua famiglia, offrendo collaborazione e sperando di essere protetto. Ma si sbagliava.
Le indagini portarono a individuare il possibile autore di quelle estorsioni: Luigi Castrì aveva fatto il bracciante agricolo, anche nelle aziende dei Protopapa. Forse per questo si era accanito contro quella famiglia, dopo aver trascorso tre anni in carcere dal 1985 al 1988 per un’estorsione ai danni di un commerciante di via Lata. Ma i carabinieri non avevano prove e lui, resosi conto che stavano indagando, invece di eclissarsi alzò il tiro. Così il 1990, proprio nella notte di Capodanno, iniziò con una fucilata esplosa contro l’abitazione di Giuseppe, in via Cappuccini. Neanche questo episodio convinse chi indagava a proteggere l’agricoltore e la sua famiglia. I carabinieri erano convinti che andassero tutelati i fratelli più ricchi, quelli che secondo loro erano i veri destinatari delle estorsioni. E così nessuno sembrò preoccuparsi molto quando nella solita buca delle lettere, con lo stesso normografo e identici errori grammaticali, venne annunciato “un grande attentato in stile mafioso” per punire lo sgarro di aver denunciato tutto ai carabinieri. Il 20 giugno esplose la bomba sotto l’auto di Ippazio, ucciso probabilmente solo perché era legatissimo a Giuseppe. Ma neanche questo convinse i carabinieri a proteggere il loro testimone.
“Nostro padre cercò di tenerci lontani dalla paura ma era preoccupato”, ricorda Sergio. “Ci raccomandava di guardare sotto l’auto prima di metterla in moto, si confidava molto di più con nostra madre. Forse immaginava di essere protetto, anche se intorno a casa non si vedevano pattuglie. Non percepimmo davvero un’atmosfera di paura e anche sulla morte di zio Ippazio non ci fece capire cosa ci fosse davvero dietro, che fosse un messaggio diretto a lui”.
Dopo la bomba le lettere divennero ancora più frequenti e minacciose. Nella prima c’era scritto: “Speriamo che il regalo vi sia piaciuto”. E in un’altra: “Ci sarà un’altra strage in famiglia se non pagherete”. L’assassino si fece più prudente: non le infilava più nella buca ma le inviava per posta. L’ultima il 14 agosto 1990, forse arrivata in ritardo perché dava appuntamento al giorno successivo, Ferragosto, per la consegna del denaro. I carabinieri avevano già tentato qualche giorno prima di attirare l’estorsore in trappola: la consegna del denaro era stata concordata sul ponte di Bozzano (Castrì abitava sotto, nella zona del Canale). Ma il killer si era “insospettito” per la presenza “discreta” di elicotteri.
Questa volta consigliarono invece a Giuseppe di prendere tempo facendo ritrovare nel posto in cui doveva avvenire la consegna del denaro un’altra lettera con la quale si chiedevano altri giorni per raccogliere i soldi. Non fu la scelta migliore.
Quattro giorni dopo, la domencia, Protopapa salì sulla sua Panda, senza che nessuno pensasse di proteggerlo, salutò la moglie e i figli e andò in campagna. Fu l’ultima volta. Non si accorse neanche dell’assassino che arrivava alle sue spalle: due fucilate e la morte.
Luigi Castrì fu arrestato pochi giorni dopo, ma troppo tardi: i carabinieri trovarono sotterrato nei pressi della sua abitazione il normografo e in casa un elenco telefonico con una piega nella pagina in cui c’erano gli indirizzi dei Protopapa. Grazie a quel normografo e ad altre prove raccolte, si scoprì che nel 1982 aveva ucciso allo stesso modo un altro agricoltore, sempre a fucilate in una domenica mattina: Antonio Fischetto, ammazzato nel suo terreno di contrada Schiavoni, al rione Sant’Elia. Un delitto fino a quel momento rimasto senza un colpevole. Anche in quel caso pretendeva denaro.
La Corte d’assise di Brindisi, dopo un’appassionata requisitoria del pm Leonardo Leone de Castris, condannò Castrì all’ergastolo per tutti e tre gli omicidi. Un anno dopo dal carcere di massima sicurezza di Pianosa in cui era recluso arrivò la notizia che si era suicidato, impiccandosi alle sbarre della cella. “Quando lo sapemmo in casa nostra calò il silenzio, non provammo alcuna emozione. Consideravamo quella persona che ci aveva fatto così male totalmente fuori dalla nostra vita”, puntualizza Sergio.
La famiglia Protopapa non aveva chiesto alcun risarcimento a Castrì, nonostante ne avesse pieno titolo per la condanna penale inflittagli dalla Corte. “Non volevamo una lira che provenisse da quella persona”. I Protopapa non ottennero neanche ristoro dallo Stato dal fondo “Vittime della criminalità organizzata”. Si rimisero a lavorare sodo, come il papà aveva loro insegnato.
“Mio padre era una persona buona, un lavoratore, sapeva cosa significa sacrificarsi per il benessere della propria famiglia. Era una persona normale. Ho sempre pensato che la società civile di cui faceva parte avrebbe dovuto sentirne la perdita e ricordarla così come avrebbe dovuto ricordare le vite delle altre due persone, uccise per mano della stessa persona: Ippazio Protopapa, cugino “fraterno” di mio padre ed Antonio Fischetto.
Perché la violenza portata al suo grado più alto contro altri uomini non è e non può essere solo una tragedia personale e familiare. E’ una ferita al corpo della società.
In tutti questi anni avrei voluto dire o fare qualcosa per richiamare l’attenzione su queste vicende, ma la partecipazione emotiva mi ha impedito di mettere ordine tra sentimenti e pensieri che affiorano alla mia mente quando io ricordo”: Sergio ha scritto questo messaggio liberatorio sulla sua pagina Facebook nel giorno del trentesimo anniversario della morte del padre: “Sì, è una storia privata, individuale, ma che dovrebbe diventare patrimonio comune. E invece Brindisi ha voltato pagina il giorno successivo ai funerali, dimenticando che mio padre ha dato la sua vita per essersi ribellato al racket affidandosi allo Stato”, aggiunge e ancora una volta si emoziona.
L’anno successivo alla morte di Protopapa venne ucciso a Palermo Libero Grassi, imprenditore divenuto poi giustamente un eroe nazionale per la sua scelta coraggiosa di opporsi al racket delle estorsioni. Giuseppe Protopapa lo aveva fatto prima di lui, lontano dai riflettori e pagando probabilmente anche l’inesperienza di chi avrebbe dovuto proteggerlo. Ed è diventando un eroe sì, ma solo per la sua famiglia.