
Mentre l’Adriatico meridionale continua a essere esplorato (e trivellato) alla ricerca di nuovi pozzi petroliferi sottomarini, c’è chi all’improvviso smobilita, chiude un pozzo ancora attivo, interrompendo la produzione, e va via. Ma interrompere l’estrazione di greggio dal fondo del mare non è esattamente come tappare un pozzo nel deserto: esistono delle norme di sicurezza che vanno rispettate per evitare che eventi naturali, o incidenti provocati dall’uomo, possano creare improvvise perdite e disastri ambientali dei quali si può solo immaginare la portata.
L’1 ottobre scorso, dopo un mese e mezzo di lavori di dismissione effettuati a partire dalla metà di agosto, è stata rimossa l’unità galleggiante “FPSO Firenze”, attrezzata con impianti di trattamento e stoccaggio del petrolio per conto di “Eni Spa Distretto meridionale”, titolare di una concessione di coltivazione di idrocarburi valida dal marzo 1992 al maggio 2020. L’estrazione del petrolio avveniva attraverso due pozzi, denominati “Aquila Bis” e “Aquila 3” ubicati a 45 chilometri al largo della costa brindisina, ad una profondità di circa 850 metri. I due pozzi era collegati alla “FPSO Firenze” con due riser (tubi principali) per l’estrazione del petrolio, altri due di servizio per l’espulsione dei gas e due ombelicali elettro-idraulici. L’FPSO aveva una capacità di stoccaggio di 700.000 barili e una capacità produttiva di 12.000 barili di olio al giorno.
Durante l’attività estrattiva, la prevenzione antinquinamento era garantita dalla presenza costante, “h24” di un rimorchiatore di tipo “Suppley Wessel” che veniva sostituito da un’imbarcazione identica per consentire i rifornimenti necessari. La piattaforma dunque era tutelata costantemente nell’eventualità di qualsiasi incidente. In particolare il rimorchiatore era attrezzato per la messa in sicurezza del personale che operava sulla piattaforma (una cinquantina di uomini in tutto) e per un immediato intervento con distesa di panne galleggianti in caso di perdite di greggio in mare per limitarne la dispersione nell’Adriatico.
A terra inoltre, presso il porto di Brindisi, era stoccata l’attrezzatura necessaria a intervenire in caso di sversamento accidentale di inquinanti in mare, quali barriere di contenimento, skimmer per il recupero di liquido, contenitori e sostanze disperdenti. La costa di Brindisi, infatti, in caso di incidente, sarebbe stata quella verso cui le correnti marine avrebbero dirottato l’eventuale chiazza di petrolio.
Il deposito per la movimentazione di tutto il materiale di prevenzione era stato realizzato da Saipem che nel 2009 (e sino al 2013) si era aggiudicata il contratto per la fornitura e la gestione dell’impianto FPSO (Floating Production Storage and Offloading) assegnato da Eni Spa.
Nel 2014, con ordinanza della Capitaneria di Porto di Brindisi, la zona della piattaforma petrolifera era stata interdetta all’accesso di navi e aerei nell’area compresa nel raggio di 2mila metri dalla torretta di posizionamento della Firenze FSPO, ed era stato disposto il divieto d’ancoraggio, pesca in profondità e altre attività in una zona più ampia, compresa nel raggio di 2900 metri dalla piattaforma.
Nello scorso mese di maggio, sul sito della Capitaneria di Porto di Genova, dove la “Firenze FPSO” risulta iscritta, è comparso un avviso con cui l’autorità marittima rendeva noto che l’Eni (proprietaria dell’unità tramite la controllata Floaters Spa) aveva richiesto la dismissione della bandiera italiana, per passaggio a bandiera di Panama. Il gruppo energetico italiano aveva convocato qualche settimana prima un incontro con le sigle confederali per preannunciare l’intenzione di dismettere proprio la Firenze FPSO.
Adducendo come motivazioni un mercato petrolifero ancora instabile e costi operativi troppo elevati, l’Eni aveva informato le controparti sindacali della sua volontà di staccare l’unità (acquisita nel 2013, per oltre 330 milioni di euro, dall’ex controllata Saipem, in sostituzione di un altro mezzo) dal pozzo, e di porla in disarmo.
La decisione di Eni aveva sorpreso perché solo un anno prima, il 4 aprile 2017, il gruppo aveva ottenuto dal ministero l’Autorizzazione integrata ambientale per l’esercizio della piattaforma brindisina. Un permesso della durata di ulteriori dieci anni.
Dopo una riunione per stabilire le prescrizioni, alla quale hanno partecipato rappresentanti dell’Unmig (Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse), la Capitaneria di Porto di Brindisi e il comando regionale dei vigili del fuoco per determinare le prescrizioni cui Eni avrebbe dovuto attenersi, dalla metà di agosto sono iniziate le operazioni di dismissione con il trasferimento dei materiali che si trovavano a bordo della piattaforma, una nave Offshore Support Vessel costruita nel 1989 e lunga 268 metri. Poi è iniziata la fase di chiusura dei due pozzi.
Sulla modalità restano alcuni passaggi poco chiari.
Sembrava scontato che i quattro riser e i due ombelicali dovessero essere sottoposti a quello che in gergo viene definito “killing”, ossia “uccisione” vera e propria dei pozzi. Tutti i collegamenti con l’esterno vengono “sigillati” con materiale compresso che rende impossibile qualsiasi fuoriscita di petrolio. Si tratta di un processo irreversibile che impedisce ogni tipo di riapertura, ma che soprattutto mette al riparo da qualsiasi rischio di perdita. Per le operazioni era previsto l’utilizzo di una particolare soluzione salina, detta “brine”, utilizzata abitualmente per il completamento dei pozzi.
Ma pare che invece della soluzione del “killing”, Eni abbia optato per la cosiddetta “messa in sicurezza” che consiste nell’applicazione di speciali valvole ai riser e agli ombelicali che poi sono stati riadagiati sui fondali, a 850 metri di profondità, con la possibilità in futuro di riattivare l’estrazione del petrolio dai due pozzi. In pratica il pozzo resta “vivo”, anche se abbandonato.
Sulla soluzione adottata non esistono documenti ufficiali, anche se la Capitaneria di porto di Brindisi ha comunicato a “il7 Magazine” che i pozzi sono stati messi in sicurezza e non “killati” in quanto nel giro di un paio d’anni Eni avrebbe intenzione di riattivare la piattaforma.
Ciò che invece preoccupa è la situazione oggettiva di sicurezza in cui si trova la zona dall’1 ottobre scorso, giorno in cui la piattaforma è stata rimossa. Contestualmente ha cessato il servizio anche il rimorchiatore che era pronto a intervenire nel caso di incidenti. Ed è verosimile che – in assenza della FPSO Firenze – venga meno anche l’interdizione alle navi e agli aerei disposta dal 2014 dalla Capitaneria di Porto, anche perché non esiste più il punto di riferimento visivo che – secondo l’ordinanza – indicava l’area sottoposta a divieto. E questo è un bel problema perché il campo Aquila ricade esattamente nella zona denominata “D 25/C” destinata alle esercitazioni militari aeree.
Ora si comprenderà come inquietante possa essere la presenza sui fondali di tubi collegati con pozzi di petrolio in un’area in cui piloti di aerei effettuano esercitazioni di tiro.
Ma a prescindere da questi rischi, un altro campanello d’allarme è rappresentato dalle frequenti scosse sismiche, anche di notevole intensità, che negli ultimi mesi si stanno sviluppando tra la Grecia e l’Albania.
A prescindere da quale sia stata la soluzione adottata per la chiusura dei pozzi, sarebbe stato legittimo immaginare che, prima di considerare la situazione “sicura” sarebbero trascorsi mesi in cui la tenuta delle valvole doveva essere monitorata per escludere qualsiasi forma di perdita. Invece, non solo è stato dismesso il sistema di sicurezza in mare, costituito dai rimorchiatori “Suppley Wessel” che affiancavano h24 la piattaforma. Ma è stato anche revocato il “Piano emergenza ambientale marino” istituito da Saipem (per conto di Eni). Nonostante il 23 gennaio 2017 il ministero dell’Ambiente, con un decreto, avesse stabilito per i titolari di attività di perforazione nel mare territoriale o della piattaforma continentale italiana, l’obbligo di costituire depositi in luoghi idonei sulla terraferma in modo da rendere rapido ed efficace l’intervento nel caso di incidenti.
Invece, contestualmente alla dismissione della piattaforma, Eni ha interrotto dal primo novembre il contratto con Saipem avviando la rimozione di una ventina di container che erano dotati del materiale di pronto intervento per proteggere le coste brindisine da eventuali mareggiate di petrolio.
L’assessore all’Ambiente del Comune di Brindisi, Roberta Lopalco, ha chiesto formalmente alla Capitaneria di Porto e agli altri enti interessati chiarimenti sulle modalità di messa in sicurezza dei pozzi di petrolio e se essi siano monitorati per garantire che gli interventi effettuati escludano la possibilità di perdite sottomarine.
Nel frattempo la «Firenze FPSO» risulta essere ancora in rada, con l’equipaggio a bordo, nel porto di Augusta, scortata dai rimorchiatori d’altura GH Vojager e Maersk Trader. Anche questo è un mistero.