Pic Nic, c’era un progetto per farlo risorgere. Ma la burocrazia lo ha «demolito»

di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine

Poteva essere il più bel ristorante di Brindisi, l’unico incastrato negli scogli levigati dalle mareggiate di maestrale. Lo era stato già fino agli anni Settanta, immortalato nelle foto in bianco e nero che raccontano nozze, battesimi e pranzi luculliani. Sarebbe tornato a ospitare epiche abbuffate di ricci e cozze, spruzzati dall’acqua di mare che arriva sin sotto i tavolini. Ma soprattutto avrebbe ridato lustro alla zona che gli over 50 chiamano tuttora “Sciaia”, toponimo che profuma ancora delle cozze nere di quella baracca divenuta poi famoso ristorante sulla banchina che oggi è parte del porticciolo turistico.
E invece il nuovo Pic Nic, ridisegnato da uno dei migliori architetti italiani (per altro brindisino), specializzato nel restauro e recupero di edifici storici e nella realizzazione di moderne strutture ricettive, per conto di un imprenditore (anch’egli brindisino) che avrebbe finanziato l’opera con capitale esclusivamente privato, è stato riposto nel cassetto. Per sempre.
IL7 Magazine apre per la prima volta quel cassetto, per mostrare come avrebbe potuto cambiare volto un tratto di costa che oggi diventa il punto di raccordo tra la nuova spiaggia di Cala Materdomini, il Castello Svevo (che sta finalmente per essere restaurato) e il porto turistico. E invece l’onnipotente burocrazia del porto ha arenato tutto.

La storia del Pic Nic inizia negli anni Cinquanta, ma è inutile ora ricordarla tutta. Parte anche questa da un chioschetto per la vendita delle cozze, sino a diventare un locale di punta del “quadrilatero” Estoril, Sciaia, Lampara e, appunto, Pic Nic. Mare, gastronomia, feste da ballo: c’era tutto in poche centinaia di metri. E a Brindisi giungevano da mezza Puglia, da mattina a notte fonda, per quella che solo molto tempo stata chiamata la “movida”. Poi la crisi: chiudono tutti, uno alla volta, in pochi anni. Sciaia e Lampara sono state demolite da decenni, l’Estoril rimasto stoicamente in piedi, diroccato, pericolante, è stato buttato giù martedì scorso. Serviva spazio per il parcheggio di Cala Materdomini.
Il Pic Nic no. La cucina smette di funzionare all’inizio degli anni Settanta, ma resta aperto come bar take away: patatine, coca e birra prima di parcheggiare l’auto sulla diga, le coppiette per amoreggiare, le famiglie per ammirare il mare che da un lato o dall’altro è sempre magicamente calmo. Il Pic Nic rimane lì, avvolto per anni da migliaia di conchiglie che ne rivestono i muri esterni: come se attendesse con pazienza il momento giusto per ripartire, per ritornare ad essere l’unico ristorante sul mare.
Nel 2009 cambia tutto. L’Autorità portuale, ente sorto nel 1994, si “accorge”, ricevendo una semplice comunicazione di cambiamento di gestione del locale, dell’esistenza del Pic Nic, che si trova per altro al confine del Demanio marittimo, in zona di competenza e sotto la tutela dell’Authority. E viene fuori che, fino a quel momento, i proprietari che si sono susseguiti non hanno versato un euro (e prima una lira) per una concessione che di fatto non era mai stata assegnata.

A questo punto, legittimamente, l’Autorità blocca tutto. Il nuovo gestore non è legittimato perché si tratta di un bene pubblico per il quale è necessaria una gara. Il bando viene pubblicato nel novembre 2008 e nel mese di giugno 2009 la concessione è assegnata all’imprenditore portuale Teo Titi. Di fatto la sua è l’unica offerta valida perché l’altro (unico) concorrente non possiede i requisiti minimi di garanzia a supportare la sua candidatura.
“All’inizio presentai l’offerta senza troppe ambizioni, ma poi mi appassionai all’idea e, una volta ottenuta la concessione, il sogno di realizzare qualcosa di bello e unico diventò per me quasi prioritario rispetto a tutte le mie attività”, ricorda Teo Titi. “Così mi misi alla ricerca di un progetto che potesse essere moderno e funzionale all’idea che avevo di un ristorante affacciato sugli scogli”. Titi è uomo di mare da generazioni, titolare di un’impresa portuale, di un’agenzia viaggi e negli ultimi anni del servizio di assistenza agli yacht dei miliardari che ormeggiano a Brindisi. E’ tuttora presidente del Circolo della Vela (che organizza la Brindisi-Corfù) ed è stato assessore comunale al Turismo con la giunta Mennitti.

La concessione quadriennale, è il caso di dirlo, costa “salata”: 12 mila euro all’anno. Ma Titi lo ha messo in conto. Fa preparare un primo progetto, poi un secondo, ma il risultato non lo convince. Non è quello del ristorante che sogna di realizzare. Eppure lui un’idea ce l’ha bene in mente. Qualcuno gli segnala il nome dell’architetto Claudio De Gennaro. Il padre, Nino, è stato un apprezzato pittore che i brindisini hanno conosciuto anche nelle vesti di disegnatore e caricaturista sui giornali locali della prima metà del Novecento. Famosi i suoi ritratti di profilo. Claudio, dopo la laurea a Venezia nel 1976, ha aperto il suo studio a Piacenza, a Cremona e, infine, a Modena. Ha disegnato tra l’altro il Club house della Ferrari-pista a Fiorano modenese, alcuni degli hotel della catena Fini e vari Centri direzionali.
De Gennaro non ha mai realizzato nulla a Brindisi ma la possibilità di creare qualcosa per la sua città e di dare un nuovo volto a quel vecchio ristorante che sin da piccolo conosceva bene, lo entusiasma. “Ci incontrammo e raggiungemmo immediatamente un’empatia eccezionale”, racconta Titi. Nell’agosto 2010 viene presentato formalmente il progetto.

Ma vengo fuori subito le sorprese. L’architetto allega una relazione tecnica illustrativa dalla quale emergono una serie di problemi che nelle precedenti gestioni non erano mai stati affrontati e che non erano neanche stati messi in preventivo: il locale non è dotato né di impianto di ricambio di aria forzata, né di aria condizionata, né di riscaldamento e non è collegato alla rete fognaria. Sul retro c’è una specie di pozzo nero nel quale per decenni sono stati fatti confluire gli scarichi del ristorante e sulla cui impermeabilità ci sono molti dubbi. Inoltre gli impianti elettrici, non a norma, dovranno essere rifatti.
Il locale è proprio messo male, anche perché l’altezza del soffitto (due metri e 70) non è conforme alle norme, così come lo spazio della cucina (22 metri quadrati soltanto) non è consono. Ma Titi è determinato ad andare avanti e ad adeguare, a proprie spese, la struttura.

Il progetto redatto da De Gennaro e sottoposto per l’approvazione all’Autorità portuale spiega che il fabbricato esistente è costituito da una struttura in cemento armato di un piano. Originariamente era nato intorno a un vecchio bunker risalente al periodo della guerra e che è ancora visibile sul lato del mare. Il vecchio Pic Nic era composto da ingresso, sala ristorante, cucina, due bagni e locale deposito. All’esterno del locale, sul lato nord-est, è presente uno spazio pavimentato e in parte coperto con portico, costituito da strutture in legno coperte da incannucciato. La sala ristorante è di 136 mq. per un totale di 85 posti a sedere circa. La sala ristorante esterna è di 370 mq per un totale di 200 posti a sedere circa. Il totale posti a sedere sarà, spiega nel progetto De Gennaro, di circa 285.

“La struttura che avevamo pensato era bellissima”, spiega Titi. «E avevo pensato a un nome nuovo: volevo chiamarla Maistro. Sono uno che è vissuto sempre a contatto con i pescatori, andavo con loro sugli schifarieddi. Cercavo una parola che fosse ben radicata nella cultura dei brindisini e in quel posto in particolare. Il vecchio Pic Nic è esposto al vento di maestrale e con le barche i pescatori dicono ‘andiamo a Maistro’, proprio per indicare quel tratto di mare al largo di Materdomini”.
Il “Maistro” avrebbe avuto, oltre ai tavoli del ristorante, anche degli sgabelli con piccoli tavolini per consumare frutti di mare guardando l’orizzonte. Il mare sarebbe arrivato sotto la parte esterna del ristorante, come una piscina naturale popolata da crostacei vivi e pesci. Sono previsti un ormeggio per le barche, un pontile galleggiante e la possibilità del servizio a bordo da ordinare via internet. Il ristorante sarebbe stato integrato con la scogliera sino al mare. Per gestirla Titi presenta un’altra richiesta di concessione.
Un progetto ambizioso ma anche costoso che Titi decide di affrontare con il supporto delle banche e che richiede da subito un investimento importante. Per questo, prima di iniziare, presenta un istanza affinché la concessione diventi ventennale, anche perché prima di costruire sarà necessario mettere a norma tutto. Non avrebbe spendere tanti soldi per avere la titolarità della struttura per soli quattro anni.
Ma l’Autorità portuale sembra avere fretta perché il 12 agosto 2010 invia una prima raccomandata chiedendo come mai i lavori non siano partiti.

Da questo momento inizia un logorante carteggio che tentiamo di sintetizzare: agosto 2010, presentazione dell’ultimo progetto di De Gennaro e richiesta di ampliamento della concessione agli scogli e allungamento a vent’anni. Tra lettere da una parte e dall’altra si arriva a luglio 2011 quando l’Authority ribadisce che sono passati 2 anni e che non è iniziata l’attività per la quale è stata rilasciata la concessione (che con quella struttura non poteva essere svolta, ndr). E annuncia: “Perdurando tale situazione potrà essere attivato il procedimento di decadenza della concessione”.
Nel dicembre del 2011, due anni dopo la concessione, si arriva al capolinea: Titi rinnova per l’ennesima volta la richiesta di prolungamento a 20 anni della concessione e produce business plan reinviando modelli, carte, progetti già spediti in passato ma richiesti nuovamente dall’Autorità portuale. Il 30 gennaio 2012 l’Authority finalmente risponde: non è possibile concedere quel bene per 20 anni, massimo dieci.

E neanche dieci, perché dal business plan presentato, a Titi toccherà per non più di sette anni. L’Authority infatti ritiene –­che l’importo per la ristrutturazione appare elevato (osservazione singolare visto che era a totale carico dell’imprenditore) e infine chiede di indicare in base a quale analisi di mercato dei ristoranti di Brindisi è stata effettuata la stima dei flussi di cassa per la gestione dell’attività. La firma di quest’ultima lettera è del segretario generale dell’ente, Nicola Del Nobile.
A giugno 2012 arriva a Titi la comunicazione dell’avvio del procedimento di decadenza della concessione. L’imprenditore paga il canone per l’intero 2012 e, sconsolato, abbandona l’idea. Per sempre. Rimettendoci anche il denaro sborsato per acquisire le licenze per il ristorante e il bar.
Così l’Autorità portuale e la città ritornano definitivamente in possesso del rudere che oggi è ancora più a rischio di crollo, privo di ogni minima opera di urbanizzazione e con il sospetto che una parte della struttura sia totalmente abusiva.

Il nuovo ristorante, così come progettato, sarebbe stato un gioiello all’interno di un’area che sta per diventare la più importante della costa brindisina. La «Sciaia» sarebbe ritornata ai fasti degli anni Sessanta.
E invece quella baracca cadente resterà così (sino a quando inevitabilmente non crollerà) il monumento all’ignavia e alla burocrazia, per testimoniare perché questa città non riesca mai a decollare, imbrigliata dalla burocrazia e dai poteri personali. «Sarebbe stato un sogno realizzato nella mia città e per la mia città», confida Teo Titi. «Ma ho dovuto abbandonarlo per sempre».