di Giovanni Membola per il7 Magazine
Chi sarà stato quell’importante personaggio della Brindisi romana che aveva voluto un proprio monumento funebre alle porte della colonia latina? Non è facile individuarlo, considerato lo stato del ritrovamento e le scerne informazioni che gli archeologi sono riusciti a reperire.
L’antica struttura è nota solo a pochi “addetti ai lavori”, nonostante sia stata considerata di buona fattura e occupa una ampia superfice non lontano dall’attuale Porta Mesagne, quella che più di duemila anni fa era già uno dei principali varchi cittadini con immissione sulla famosa Via Appia. Brindisi, colonia di Roma dal 244 a.C. al V secolo d.C., ha vissuto in quei lunghi secoli di dominazione i periodi più floridi dell’economia e dell’urbanizzazione dell’intero passato, è stata la città più popolosa della II Regio (9 – 14 d.C.) al centro di una serie di importanti percorsi stradali e marittimi, con una “precisa fisionomia e una funzione economica e politica che andavano al di là delle esigenze regionali” (V. Sirago). Sono numerosi i resti che testimoniano quei secoli di grande gloria, anche se non tutti sono stati studiati e valorizzati come meriterebbero. Uno di questi è proprio il monumento funerario oggi racchiuso all’interno di proprietà private.
I resti dell’antica opera furono probabilmente individuati già agli inizi del Novecento durante la costruzione di un edificio delle Ferrovie (al civico 5 di via Appia, tra il Bastione di Porta Mesagne e il muro che si realizzò al posto del passaggio a livello). Della scoperta però non sono stati trovati atti e documenti sia negli archivi della Soprintendenza né in quelli delle Ferrovie dello Stato, “eppure il monumento era stato parzialmente salvaguardato con la realizzazione di un muro di sottofondazione in tufo e una cancellata a protezione” scrisse la dott.ssa Assunta Cocchiaro sulla rivista di archeologia “Taras” (XII, 2-1992). Per anni il manufatto di epoca romana non fu più visibile “perché incapsulato tra due muri di confine”, fu riscoperto verso la fine degli anni Ottanta nel corso dei lavori per la realizzazione dei palazzi immediatamente all’esterno di Porta Mesagne, all’angolo tra via Appia e via Bastioni San Giorgio, che tanto fecero discutere. Durante l’abbattimento del muro di confine tra il cantiere edile e le case dei ferrovieri, venne rimesso in luce quel monumento funerario che ormai nessuno più ricordava, e i suoi resti furono finalmente studiati e catalogati.
Realizzato in opera cementizia, la poderosa struttura misura alla base 4,60 x 3,90 metri e si innalza per due metri e mezzo, i muri sono spessi un metro e sessanta centimetri, il tutto poggia su un “terreno sterile” dove “non è riconoscibile lo spiccato della fondazione”. La tipologia costruttiva del mausoleo è “presumibilmente del tipo a recinto” (detta anche a “recinzione funeraria”, ndr), contrassegnato da un riferimento realizzato generalmente in opera quadrata che andava a delimitare una piccola zona di terreno utilizzata anche come sepolcreto di famiglia, al cui interno di solito si trovano l’ustrina (dove avvenivano le cremazioni), are, cippi, stele o anche strutture monumentali più complesse. Oggi le pareti del singolare sepolcro sono spoglie del rivestimento, probabilmente all’epoca realizzato con lastre di marmo, lavorate e scolpite con motivi decorativi, fregi e bassorilievi, che presero a diffondersi sul finire dell’età repubblicana intorno alla metà del I secolo a.C., quando tali materiali nobili cominciarono ad essere usati nella realizzazione di edifici e templi. Presumibilmente sulla parte frontale spiccava una epigrafe che riportava incisa nell’epitaffio l’età e le tappe fondamentali della vita del personaggio o della famiglia lì sepolta, nel quale si raccontava delle imprese militari, delle cariche assunte nelle attività pubbliche e militari, e gli elogi sulle virtù fisiche e morali. Nel medioevo le necropoli abbandonate furono in buona parte interrate, le tombe sventrate e private dei paramenti esterni (i marmi e i travertini venivano di solito reimpiegati), i monumenti venivano quindi ridotti al solo nucleo cementizio così come vediamo il nostro: qui si riescono ad individuare ancora i diversi livelli di riempimento dell’opus caementicum, costituito da un impasto compatto di scaglie di varie dimensioni di pietra calcarea e malta, mentre lo spazio interno, oggi inaccessibile e ricco di vegetazione spontanea, era probabilmente la camera sepolcrale, che di solito veniva arricchita con corredi e ornamenti.
Gli storici raccontano come nell’antica Roma si utilizzavano differenti forme architettoniche sepolcrali, realizzate per una sola persona, per una famiglia o per un vasto gruppo (i cosiddetti “colombari”, uno di questi fu ritrovato nei pressi di Porta Lecce da Giovanni Tarantini nel 1871, che poi fu “ignobilmente distrutto”), pensate per la sepoltura dei corpi o per accogliere le sole urne cinerarie. Negli anni di transizione tra l’epoca repubblicana e quella imperiale divennero sempre più frequenti i sepolcri eretti per celebrare lo status sociale dei defunti, in quel periodo si svilupparono numerosi monumenti funerari come affermazione del gusto per l’autocelebrazione, adornati da cornici, sculture e decorazioni simboliche. Generalmente la tomba del defunto era posta sotto le fondazioni, a volte dentro un cinerario. Attorno ai monumenti dei personaggi di alto rango (realizzate a pianta circolare o quadrata, con prospetto a edicola, a tempietto o a piramide) si addensavano strutture di dimensioni più piccole con sepolture a fossa o a camera. Le necropoli e i mausolei venivano innalzati quasi esclusivamente ai margini delle principali strade consolari, sempre e comunque fuori dalle mura cittadine, in quanto era proibito tumulare i defunti all’interno della città. Un importante esempio è visibile nel Parco della Via Appia a Roma, dove l’asse viario è fiancheggiato da numerosi resti di tombe e sepolture, così come avveniva in prossimità di altri centri abitati incontrati dalla consolare.
Anche a Brindisi, soprattutto in età romana imperiale (30 a.C. – 476 d.C.), chi aveva la possibilità di costruirsi un “monumentum” funebre completo di apparato decorativo, lo faceva spiccare sul margine di una delle strade principali (l’Appia o la Traiana), in maniera da accompagnare i viandanti diretti o provenienti da Roma: era uso per i viaggiatori leggere ad alta voce i testi incisi sulle epigrafi che facevano parlare in prima persona il defunto, questi si rivolgeva direttamente al passante salutando e dispensando consigli, a chi si fermava gli veniva di solito augurato ogni bene e ringraziato per averlo fatto, era anche un modo per conoscere il prestigio e ammirare le gesta – e la ricchezza – del personaggio lì sepolto.
I resti del sepolcro individuato nell’ultimo tratto della Regina Viarium “costituiscono l’unica testimonianza in situ dei monumenti funerari che dovevano sorgere lungo l’Appia, nell’area della necropoli occidentale di Brindisi che si estendeva immediatamente all’esterno dell’odierna Porta Mesagne” spiega la dott.ssa Cocchiaro nel suo interessante lavoro. In effetti in tutta quella zona era già stata rilevata una strutturazione degli spazi funerari collocabili cronologicamente tra il III sec. a.C. e il II sec. d.C., alcune di queste sepolture furono purtroppo demolite. L’interesse archeologico dell’area, attestata anche dalla presenza delle cosiddette “vasche limarie” sempre di epoca romana, rimaste inglobate nelle fortificazioni cinquecentesche, avrebbe dovuto garantire la salvaguardia e la valorizzazione di questi ritrovamenti, compresa la vicina e importante opera difensiva, un fossato scavato nel banco di roccia risalente all’età romana repubblicana, individuata nel dicembre del 1990 e studiata nell’aprile dell’anno successivo. Ma questa è un’altra storia.