di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine
Due notizie emerse negli ultimi giorni fanno suonare un duplice campanello d’allarme nella lotta alla criminalità organizzata in provincia di Brindisi, una lotta che è stata serrata negli anni Novanta e nel primo decennio di quelli Duemila e che recentemente aveva un po’perso di mordente non perché gli investigatori avessero smesso di fare il loro lavoro ma in quanto – decimata dagli arresti e dalle accuse dei collaboratori di giustizia – la Sacra corona unita sembra essere stata ridimensionata a semplice brand malavitoso, privo ormai di quelle caratteristiche di mafiosità che alla fine del secolo scorso l’avevano portata a essere considerata la “quarta mafia italiana”.
La prima notizia è quella del tentativo di riorganizzazione della Scu intercettato dalla polizia all’interno del carcere di massima sicurezza di Terni dove uno dei più importanti capi del clan mesagnese, Antonio Campana, aveva rimesso in piedi gli antichi patti di fratellanza della Scu con l’obiettivo di acquisire il controllo delle principali attività illecite che, negli ultimi anni, sono state gestite da personaggi autonomi dotati di “batterie” di complici, che si muovono senza obblighi di acquisire la droga da determinati fornitori, né di rispettare territori o rapporti personali nel caso in cui si debba compiere rapine, furti o azioni estorsive.
Campana, mesagnese, ha cercato e ottenuto il supporto di Raffaele Martena, un altro malavitoso di assoluto spessore dotato di carisma e che avrebbe il controllo della zona a sud di Brindisi, tra Tuturano e San Pietro Vernotico. Insomma un tentativo di ricreare quell’asse Mesagne-Tuturano che negli anni Ottanta fu alla base della nascita della Sacra corona unita, con il mesagnese Pino Rogoli e il tuturanese Salvatore Buccarella a tirare le fila dell’intera organizzazione.
A differenza di quella generazione di malviventi, i nuovi clan si sono evoluti. A partire dall’eliminazione della cerimonia di affiliazione (quella che faceva riferimento ai riti della ‘ndrangheta, dalla cui costola la Scu era stata fondata) della quale i pentiti avevano già fatto cenno (Ercole Penna aveva spiegato che quei riti magici, i cui testi erano stati trovati più volte nelle celle, erano costati più condanne che affiliazioni e che ormai si guardava alla serietà della persona e se dimostrava di meritare la fiducia non servivano giuramenti, la pungiuta e la sceneggiata del santino bruciato).
Il progetto di rinascita messo in atto da Campana e Martena è forse più vicino a quello realizzato dalla Banda della Magliana quando a un certo punto essa decide di assumere il controllo di Roma e di obbligare tutte le batterie di malavitosi che vi operano a sottostare alla propria autorità.
Il fatto che Campana, che pure è fratello di un collaboratore di giustizia (circostanza questa che in passato lo avrebbe immediatamente delegittimato da qualsiasi ruolo di comando, mettendone a repentaglio persino l’incolumità) avesse progettato una clamorosa fuga dal carcere di massima sicurezza e non avesse esitato anche a informare i suoi adepti di essere intenzionato a vendicarsi con il magistrato che lo aveva fatto arrestare, il pm Alberto Santacatterina, fornisce l’esatta dinamica della caratura del personaggio. E anche se il suo progetto è stato bloccato, è probabile che altri elementi di valore analogo all’interno dell’organizzazione, possano aspirare a ricreare i presupposti per una nuova affermazione della criminalità organizzata. Che si chiami o meno Sacra corona unita non importa, forse neanche a loro.
La seconda notizia è quella della scarcerazione di Giovanni Donatiello, condannato all’ergastolo come mandante di un omicidio avvenuto alla fine degli anni Ottanta e soprattutto capoclan riconosciuto (la certificazione è fornita da sentenze definitive) della Sacra corona unita, con pesanti condanne per mafia.
La sua scarcerazione è stata resa possibile da una sentenza emessa dalla Corte europea il 9 luglio 2013 con la quale è stato affermato che l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata o di revisione della pena è una violazione dei diritti umani poiché l’impossibilità della scarcerazione è considerata un trattamento degradante ed inumano contro il prigioniero.
Giovanni Donatiello, mai pentito, aveva iniziato da alcuni anni un percorso diverso, iscrivendosi all’università, collaborando con un giornale nazionale che parla dei problemi dei detenuti e portando anche fuori dal carcere, in incontri organizzati con studenti e insegnanti, la sua esperienza di ergastolano. Oggi ha 58 anni, dunque è ancora nelle condizioni di lavorare (è stato assunto in un’autocarrozzeria) e viene seguito con grande attenzione dalle forze di polizia in quanto si trova in libertà vigilata. Potrebbe essersi lasciato davvero alle spalle il suo ingombrante passato, ma non è questo l’unico interrogativo.
Perché, grazie alla stessa sentenza, è data per imminente la scarcerazione del capo di tutti i capi della Sacra corona unita, Pino Rogoli, detto “il vecchio”. E potrebbe arrivare a breve anche quella dei fratelli Bruno, di Giuseppe Gagliardi, insomma di tutti quei personaggi che hanno scritto le pagine più sanguinarie e violente nella storia di questa provincia dal Dopoguerra in poi.
Il tentativo di riorganizzazione da parte della generazione successiva a quei boss, scoperto in questi giorni, e la possibilità che i fondatori della Scu tornino presto tutti in libertà deve probabilmente far riprendere in considerazione l’attenzione con cui la Direzione distrettuale antimafia di Lecce continua a monitorare ciò che avviene in questa provincia. Cosa faranno gli «irriducibili» della Scu una volta tornati in libertà dopo oltre trent’anni, intenterrotti di detenzione, senza mai un minimo cedimento?
Il destino sembra aver dato una mano la Giustizia, visto che da poco più di un anno al vertice della procura leccese c’è Leonardo Leone de Castris, uno dei grandi protagonisti della lotta alla Sacra corona negli anni “di piombo” della mafia brindisina. E’ lui l’unica certezza. Fu proprio De Castris a ottenere la prima condanna all’ergastolo per un omicidio commesso con l’aggravante mafiosa all’inizio degli anni Novanta, nei confronti dei mesagnesi Massimo D’Amico e Ugo Antonio Rubino. La sentenza, giunta un anno dopo quella di Lecce che per la prima volta riconosceva la mafiosità della Sacra corona unita, rappresentò il primo baluardo di una sfida che la Procura di Brindisi (quando ancora la Dda non esisteva) seppe vincere. Un capitolo che, ora più che mai, non può essere considerato chiuso definitivamente.