di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine
Può un’ondata di rabbia su qualcosa di così immenso come la vita di un bambino partire da un giornale locale e sollecitare la reazione di un’intera comunità, e poi allargarsi a macchia d’olio e coinvolgere altre realtà, magari più grandi, sino a diventare un movimento consapevole, unito, determinato a cambiare quello che viene inaccettabilmente indicato come il “destino”?
Sì perché è al caso, al destino, alla statistica, ma soprattutto a una enorme dose di incoscienza, che affidiamo la vita dei nostri bambini se non siamo nelle condizioni di aiutarli in caso di necessità.
Forse questa rabbia che proviamo dentro è legata anche alla vicinanza “fisica” con le due ultime tragedie avvenute a pochi chilometri da noi: Vanessa e Andrea (nomi di fantasia), due bimbi di appena due anni, morti soffocati a causa di un acino d’uva. Doveva essere una vacanza di festa la loro, la prima di una vita lunghissima che li attendeva. E invece è finito tutto qui, con il paradosso che a strappare loro la vita, nella nostra terra, sia stato proprio un acino d’uva, simbolo del vino, la bevanda degli dei.
Quando Andrea ha ingoiato quell’acino che gli ha ostruito le vie respiratorie, è scattato un terribile conto alla rovescia per salvargli la vita: ci sono quattro minuti di tempo, da quando inizia il soffocamento, per evitare la morte di chi si ritrova in quella situazione, bambino o adulto che sia. Possono sembrare, pochi, ma sono un’eternità. Provate a contare sino a 240 e vi renderete conto di quanto tempo ci sia a disposizione.
Ma in quei quattro minuti, gli adulti che erano con Andrea, così come il 90 per cento di noi, non erano in grado di compiere con il semplice aiuto delle mani e delle braccia quelle manovre che consentono in pochi secondi di salvare la vita a chi ci sta lentamente morendo sotto gli occhi. I genitori del bimbo hanno chiamato il 118 e l’ambulanza è arrivata persino in tempo record rispetto alle canoniche attese di soccorsi: erano trascorsi “solo” sei minuti dall’inizio del soffocamento quando i sanitari hanno tentato di rianimare il bimbo. Ma era già morto.
Per questo l’abbiamo chiamata “Quattro minuti” quella che più che una campagna di sensibilizzazione vuole essere una reazione emotiva, un moto di rabbia, la consapevolezza che ognuno di noi può considerarsi un “fortunato”, perché non si è trovato nelle condizioni dei genitori di Andrea, altrimenti rientrerebbe nella categoria di chi ha perso un bambino e per tutta la vita si porterebbe dietro il fardello della responsabilità di non essere stato in grado di salvarlo.
La chiamiamo “4 minuti”, ma avremmo anche potuta chiamarla “4 ore per la vita”, perché è questo il tempo necessario complessivamente per partecipare a una lezione (gratuita) e imparare le semplici di manovre di “disostruzione orale”, conosciute anche come “manovra di Heimlich”. E qui la rabbia aumenta.
Mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a una martellante campagna per l’uso del defibrillatore, legittima e benedetta, ma probabilmente alimentata anche dai comprensibili interessi economici delle aziende che producono i cosiddetti apparecchi salvavita, nessuno ha davvero spinto – a livello politico e istituzionale – per diffondere e far conoscere le manovre di disostruzione, forse anche perché esse non fanno business, facendo affidamento solo sulla capacità degli adulti di intervenire in tempo. E di tempo ce n’è.
Periodicamente se ne torna a parlare, ci sono in Italia decine di associazioni di volontariato che organizzano i corsi. Ma la partecipazione viene in questo modo lasciata al caso, alla buona volontà e alla ragionevolezza di chi vuole imparare. Molti ci pensano, vorrebbero parteciparvi, poi dimenticano, si lasciano prendere dalla pigrizia. Anche chi scrive avrebbe voluto ma non l’ha mai fatto. E si ritiene fortunato a non dover ancora rimpiangere questa sua incapacità.
Esiste un progetto per insegnare, pare dall’anno scolastico che sta per iniziare, agli studenti le manovre di disostruzione orale. E’ un’iniziativa meravigliosa e in prospettiva vincente. Ma in questo momento non può essere l’unica. Provate a fare un sondaggio: chiedete agli insegnanti dei vostri figli, nelle scuole d’infanzia, nelle materne e nelle elementari, quanti di loro sono in grado di praticare la “manovra di Heimlich”. Perché è verosimile che loro, statisticamente più di altri, si possano trovare davanti a un bambino che sta soffocando. Vi renderete conto che sono pochissimi. E poi fate un sondaggio nella vostra famiglia e tra i conoscenti: quanti saprebbero intervenire tempestivamente?
Ecco, l’obiettivo di “4 minuti” è quello di non continuare a fare teoria né di stare a piangere questi bambini come se fossero solo vittime del destino. Ma di intervenire praticamente, cercando di sconfiggere i due principali avversari: la pigrizia e l’ignoranza. In molti non sanno e noi intendiamo informarli e coinvolgerli, utilizzando tutti i canali a nostra disposizione, grazie alla collaborazione di enti e associazioni che aderiscono alla nostra iniziativa. Ma soprattutto in tantissimi non hanno voglia, o tempo, o interesse per recarsi di persona. E noi li andremo a prendere, se necessario uno per uno, per farli partecipare e imparare.
Può sembrare un obiettivo utopistico. E per questo porteremo avanti questo progetto con la collaborazione speciale di un’associazione creata dal collega Franco Giuliano che da anni è impegnata in battaglie civili importantissime. Si chiama “L’Isola che non c’è” e il suo nome non può essere casuale perché richiama proprio il nostro obiettivo: che non ci siano più Bimbi sperduti.