T’amo parco Bove, mite è il tuo sentimento

Come troppe cose della mortificata e inebetita città di Brindisi, anche quell’angolo infesto e immondo che è parco Bove, non può esser letto, come nelle cartoline. Il suo tragico ritratto, di luogo che ospita i brutti, gli sporchi ed i cattivi, non è vero e non è neppure reale, ma è convenuto assai farlo passare per questo.
Sono trascorse generazioni, ma a Brindisi, la questione abitativa era e resta una emergenza dai connotati strani, iniqui ed esageratamente fuori dalla logica della offerta di una risposta ad un bisogno essenziale.
Non è un caso che dubbi siano stati rilevati sulla gestione dell’ufficio casa del comune e che il ricorso d’emergenza a soluzioni tampone, abbiano rivestito, sempre più la funzione di ricorso ad una prassi che da emergenziale si è tramutata in ordinaria.
A Parco Bove sono ricoverati esseri umani, i cui diritti non sono mai stati esclamati, né lo potevano, essendo i ricoverati (residenti mi pare un offesa) ammutoliti dal imbavaglio dalla necessità dovendo nascondere al sole la propria natura di clandestini ad ogni regola, ad ogni norma abitativa.
È durato sin troppo il gioco a far finta che i muti, neppure esistessero. È durato ben oltre il tollerabile il balletto della messa in scena di affacciarsi all’uscio delle “catapecchie” per lucrare il consenso di chi è costretto a chiamare “papà a chi gli promette di dargli da mangiare”.
Con la magnanima ed onnicomprensiva legittimazione democratica, tutti si sono sentiti in potere di farlo, tutti ne sono diventati paladini a parole, ma nei fatti, il risultato li vede moralmente sconfitti.
Ora si procede allo sgombero, ora si provvede alla miseranda soluzione tampone che ben lontano dai proclami, vede Brindisi, incapace di gestire il bisogno di pochissime decine di persone ridotte al degrado e la indegnità di un ricovero che chiamarla casa, nessuno, a partire dai ricoverati, se la sente.
In questo frullato di iniquizie e di profittamenti, scompare il sapore aspro di quel frutto che produce la pianta dell’ignoranza e della prepotenza. Ci sono gli esempi, ci sono i nomi, di coloro hanno deciso di vivere fuori delle regole, fuori dal controllo, fuori dagli schemi civili.
Ad essi, non è mai stato contrapposto il legittimo alt. Ad essi è stato preferito, concedere corda, per incappiarli, pure loro, nel tragicomico teatrino dei pupi, che pupari furbi e scaltri hanno usato per gestire il patrimonio pubblico.
La politica è l’arte del possibile ed è la forma più alta di carità, direbbe qualcuno, ma quest’arte s’è ridotta a furbesca “mappazza” per cui la politica resta l’arte del possibile, ma il suo contributo alla carità (caritas-amore) è assolutamente negativo.
Il bene comune è il luogo concettuale del profittamento che si è accresciuto a scapito della sfera dei diritti individuali, magari pure sanciti nella Carta Costituzionale, di cui i politici conoscono bene le modalità per renderla carta straccia.
Il portato culturale dei politici a cui è affidato il compito di amministrare la “Res Publicae” risulta imperfetto, perché nella migliore della ipotesi, manca del fondamento essenziale che crea discrimine tra “servire e servirsi”. Quei pochissimi che sono armati di buone intenzioni, sono placcati, ingabbiati e li ritrovi ai margini, azzittiti e/o ridotti alle dimissioni.
A Parco Bove il portato culturale dei ricoverati ha offerto una lezione di civismo aspra, dura ed indefettibile. La chiarezza della loro istanza ha fatto muro alla incerta e balbettata soluzione a cui è giunta l’amministrazione pubblica.
Lì si è misurata ka differenza, notevole ed incolmabile, tra chi chiede e chi deve rispondere. Lì si è misurata la pochezza di chi è giunto all’aberrazione di voler usare il piede di porco e chi, praticando la resistenza passiva (Satyagraha – l’avrebbe chiamato il Maestro Ghandi) si è spinto a ridurre il proprio dignitoso grido di diritto alla casa, barricandosi nella stalla, perché questo è il ricovero di Parco Bove.
Lo scontro non c’è stato, come non c’è stato l’incontro pacificatore. Bravo l’assessore alla legalità che ha smussato le asprezze, ma parco Bove è l’ecatombe è la Caporetto, chiamatela come vi pare, ma è la sconfitta di un fare politico pressapochistico, titubante ed incerto che non nasconde incapacità (magari) nasconde invece la maligna necessità di arraffare, di profittare, di manipolare i bisogni, per un voto in più.
Invece di rappresentare la fine di un incubo, in cui l’assenza delle istituzioni ha ingravidato e lasciato partorire disagi e povertà diffusi in città, l’alba che si appesta non lascia luogo alla speranza ma al rinnovarsi, come fosse giogo la tremenda realtà della necessità.
Ai più sarà apparso chiaro del riferimento del titolo alla poesia di Carducci “T’amo pio bove”. Mi permetto di sollecitarne una rilettura alla luce di quel che avviene a Parco Bove e si troverà assoluta e perfetta aderenza al verso: “0 che al giogo inchinandoti contento L’agil opra de l’uom grave secondi: / Ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento / Giro de’ pazienti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera / Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto / Il mugghio nel sereno aer si perde”.