Tre sacerdoti brindisini condannati per pedofilia: un infinito atto di dolore

Da IL7 Magazine

E’ stato uno tsunami, soffiato sulla chiesa Brindisina dove d’improvviso, qualche mese fa, è partito il valzer di trasferimenti. Via i parroci vecchi per quelli nuovi, allontanati alcuni sacerdoti “chiacchierati” per lasciare il posto ad altri. Uno spostamento di pedine affatto casuale che serve senz’altro a ripristinare una immagine ormai opaca del cattolicesimo indigeno, inficiata da una serie di arresti per pedofilia che dal 2015 in poi hanno portato alla luce un sottobosco di molestie su minori fino ad allora coperto da un velo di mutismo violato soltanto, talvolta, dal chiacchiericcio di strada. La pedofilia nei luoghi di culto brindisini (non tutti, per carità) è ora verità processuale. Comunque la si voglia vedere è roba scritta su carta, raccontata da sentenze non ancora definitive ma pur sempre sentenze e non più solo atti di indagine. L’ultimo caso definito in primo grado è quello di don Francesco Caramia. Giovanissimo, appena 43enne. Prete “avanti” della parrocchia di San Giustino de Jacobis. E’ stato condannato a otto anni di reclusione per atti sessuali su un minore. Ha ammesso la propria omosessualità, una relazione affettiva avuta durante il sacerdozio e mentita al vescovo. Ha sempre negato di aver rivolto le proprie attenzioni ai bambini. La vicenda giudiziaria, al momento, dice altro.

L’arresto di don Francesco
e il processo
Tutto ebbe inizio dalla denuncia di un pediatra. Un ragazzino ormai adolescente riferì di aver subito abusi in parrocchia, dopo il catechismo. Fu eseguito un decreto di perquisizione e sequestri, nel 2015, proprio in chiesa, al rione Bozzano. Poi scattò la richiesta di misura cautelare, concessa dal gip. Carcere per don Caramia, che è poi uscito ed è ora ristretto ai domiciliari in una comunità fuori regione. I fatti contestati risalgono agli anni 2008 e 2009. Il chierichetto all’epoca dei fatti aveva 8 anni. Per almeno “due volte a settimana” il piccolo sarebbe stato costretto a compiere atti sessuali “per opera di Dio”.
Rapporti sessuali non completi dopo il catechismo, della durata di dieci o quindici minuti. Sempre “intorno alle 18 o 18.15” a quanto riferito dal diretto interessato che qualche volta, trovando una scusa, sarebbe riuscito a sfuggire. Avrebbe sottostato nelle altre occasioni perché “sottoposto a minaccia”. A quanto ha narrato, il prete gli avrebbe rappresentato che nel caso in cui avesse parlato egli avrebbe fatto valere il proprio “grande potere” e avrebbe “fatto perdere il posto di lavoro al padre o avrebbe fatto separare i suoi genitori”. Don Caramia ha affrontato un processo, che si è celebrato a porte chiuse e che si è concluso la scorsa settimana. Nessuno sconto per lui, considerato il rito “ordinario” scelto. Otto anni di reclusione gli sono stati inflitti dopo una camera di consiglio lunga ore. L’arcivescovo di Brindisi – Ostuni, monsignor Domenico Caliandro, lo aveva già sospeso dalle funzioni.

L’ammissione in aula:
“Ho mentito all’arcivescovo”.

Lo scorso venerdì santo c’era udienza, una delle ultime, del processo a don Caramia. E’ stato allora che ha confermato, rispondendo a domanda precisa, di aver omesso all’arcivescovo alcuni dettagli della propria vita privata. Dettagli che riguardano un rapporto di amicizia con un uomo, prassi non proprio incline ai dettami della Chiesa. Il ritratto di Caramia fatto dai magistrati non è affatto clemente. Si parla di “inequivocabile disinvoltura” od comunque di “evidente abitudine di gestire in modo truffaldino l’organizzazione delle feste della parrocchia”: serve a tratteggiarne la personalità.
Non “amore per la comunità, mitezza, castità, abnegazione”. Ma un “parroco indubbiamente estraneo all’immagine tradizionale del sacerdote pastore”.
“Un uomo egoista, menefreghista, dal fare truffaldino, dalla personalità inequivocabilmente scaltra, insincera e disubbidiente”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare che porta la firma del gip Maurizio Saso, eseguita nel giugno del 2016. C’era poi un’altra notazione, che accomuna la storia di don Caramia a quella di altri “colleghi” del territorio. Diversi educatori avevano avuto modo di esaminare il cammino spirituale del 43enne mesagnese, qualcuno già all’epoca aveva espresso delle riserve: nel 1995 scriveva Fabio Ciollaro, attualmente vicario del vescovo: “Ha trascorso la prima parte dell’anno con discreto impegno, applicandosi con regolarità nello studio e mostrandosi docile e servizievole. Ma la scoperta di alcuni episodi e situazioni nascoste ha svelato una spiacevole e strana doppiezza. E’ venuta alla luce una affettività disordinata, una maturità inadeguata all’età (21 anni) nei giudizi e nelle scelte pratiche, una ripetuta insincerità e disobbedienza nei riguardi degli educatori, in maniera a volte lieve a volte grave. Allo stato attuale è opportuno che lasci il seminario. Indubbiamente potrà continuare il suo cammino di discernimento in parrocchia e con l’accompagnamento di qualche prudente sacerdote. Sarà però difficile che emergano i lati e gli aspetti veri della sua personalità, così come può invece avvenire seguendolo giorno per giorno nelle situazioni concrete della vita comunitaria. in ordine al suo futuro vocazionale, pertanto, si esprimono forti riserve e perplessità. Ci si rimette tuttavia la giudizio del Vescovo”.
Le indagini e l’altro prete
Prima di don Caramia, era toccato a don Giampiero Peschiulli, parroco della chiesa di Santa Lucia. Le indagini partono da una lettera anonima giunta alla trasmissione Le Iene. Il 25 settembre 2014 l’inviato Giulio Golia approda a Brindisi. Don Giampiero si barrica in chiesa e chiama i carabinieri. La reazione del prete fa notizia. Piovono commenti su Facebook. Vengono sentite a sommarie informazioni due famiglie di ragazzi che ora hanno 30 anni e che confermano tutto, specificano anche di aver detto tutto a Talucci che li avrebbe invitati a non denunciare (ipotesi questa negata dall’arcivescovo emerito nell’interrogatorio dinanzi al pm). Il 29 ottobre, il giorno in cui va in onda la clip delle Iene sul “prete pomicione”, i carabinieri si recano a casa di don Giampiero e in curia per eseguire un decreto di perquisizione e sequestro. Il 73enne sarà poi assolto dall’accusa di detenzione di materiale pedopornografico. Partono però le intercettazioni. Il 20 maggio 2015 l’arresto.
Secondo il gip egli “avrebbe abusato dell’autorità morale e religiosa connessa all’essere il parroco della Chiesa di Santa Lucia” e avrebbe abusato di due chierichetti, minorenni, che frequentavano la parrocchia.

Le intercettazioni
Il sospetto che anche a Bozzano fosse accaduto qualcosa di torbido era già riportato, sempre nero su bianco, nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita mesi prima nei confronti di don Peschiulli che è stato poi condannato a 3 anni e 8 mesi (con lo sconto previsto dal rito abbreviato e conferma in appello) sempre per pedofilia.
Peschiulli parlava al telefono con la perpetua: “Se parla don Giampiero quanti preti si devono spogliare”. E poi ancora: “Peggio per te se l’ho fatto, perché ti stavi?”, in riferimento alle vittime. Infine ancora, riferimenti, nomi. Illazioni su cui sono stati fatti e sono in corso ulteriori approfondimenti investigativi.

Il caso del cappellano
Il 2015, insomma, è l’annus horribilis. A novembre un altro arresto scuote la comunità ecclesiale. Pedopornografia l’accusa: ai domiciliari, in flagranza, dopo una perquisizione della Postale eseguita sulla base di una segnalazione precisa, ci finisce don Franco Legrottaglie, 67 anni, che da poco aveva festeggiato i 35 anni di sacerdozio. Svolgeva le sue funzioni a Ostuni, nella chiesa della Madonna del Pozzo. Nel pc vengono trovati 2.500 file illegali.
Legrottaglie nel maggio 2016 viene condannato in primo grado, in abbreviato, a quattro anni di reclusione. Incluso lo sconto di pena. Viene anche stabilita l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e l’interdizione in perpetuo da qualsiasi incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, di ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate da minori. Pena accessoria che racchiude in sé il racconto di una storia passata, una storia che sembrava essere caduta nel dimenticatoio. E che invece ha avuto un valore processuale, sebbene non sia stata sufficiente per la Diocesi locale, negli anni trascorsi, ad assumere provvedimenti importanti.

Il precedente.
Il sacerdote era già stato condannato in via definitiva nel 2000 per una vicenda risalente al 1991: atti di libidine violenta su due bambine. Un anno e dieci mesi, la pena inflitta. Non erano tempi in cui si ricorreva facilmente alla denuncia, sulla pedofilia dei preti vigeva una coltre di silenzio a cui compartecipavano, talvolta, le vittime. Per paura di finire nel mirino, per la vergogna, per il terrore di non avere giustizia. I genitori delle due ragazzine invece, ebbero coraggio e forse anche giustizia, seppur a tempo determinato.
Nel 2010, dopo un periodo trascorso in Congo, in missione, a Legrottaglie fu assegnato l’incarico di cappellano dell’ospedale Perrino. Stipendiato dalla Asl ma scelto dall’arcivescovo, così come previsto dagli accordi regionali con le diverse diocesi pugliesi. Scaduto il termine, il contratto di consulenza esterna a tempo determinato, non gli è stato più rinnovato. E’ stato spostato alla Madonna del pozzo dove non ha mai rivestito il ruolo di parroco, ma ha celebrato messa.
Passata la bufera?
I casi giunti a sentenza, nel volgere di pochissimi mesi, sono tre. Ma le dichiarazioni dei preti coinvolti sono ancora al vaglio dell’autorità giudiziaria. Ci sono alcune denunce che vengono analizzate, ci sono stati spostamenti decisi da monsignor Caliandro, la cui ratio svela l’esistenza di altre situazioni meritevoli di approfondimento. Nomi in chiaro, nomi omissati. Verità ormai note, e presagi di sventura riportati nelle schede personali dei sacerdoti, conservate presso la Curia arcivescovile che ha sì collaborato alle indagini. Ma non ha mai denunciato.