
di Giancarlo Sacrestano
Oggi 20 marzo è la “giornata internazionale della felicità”. Lo ha stabilito l’assemblea generale dell’ONU il 28 giugno 2012, nella consapevolezza che la ricerca della felicità è un scopo fondamentale dell’umanità.
Gli Stati Uniti la introdussero nella loro Dichiarazione d’indipendenza il 4 luglio 1776, l’Italia nella propria Costituzione la ingloba nel più vasto disposto dell’articolo 3, nel 1948. La felicità non è una cosa da ridere!!! VOICES from the Blogs è l’osservatorio accademico dell’Università degli Studi di Milano che ha sviluppato una tecnologia capace di analizzare il grado di felicità attraverso la lettura di una massa di 40milioni di messaggi su twitter scambiati tra gli italiani nel corso del 2014 e che proprio oggi ha reso pubblici i suoi risultati.
Saldato il conto con i crismi della serietà dell’argomento e la scientificità della ricerca, i cui approfondimenti rimandiamo ai più intrepidi, attraverso la lettura dell’intero rapporto, a noi cronisti basta rilevare che, fatto 58,6 il valore medio nazionale, che attesta l’Italia intorno al 50esimo posto della graduatoria mondiale della felicità, Brindisi fa registrare un indice pari a 65,8, la medesima percentuale registrata nell’anno precedente dal Cile che nel 2013, si collocava al 28esimo posto della graduatoria planetaria.
Se al primo posto della felicità al mondo si colloca la Danimarca, in Italia la provincia più felice per il 2014 è quella di Cagliari seguita da Lecce, Genova, Parma e Brindisi appunto,che scala la classifica di ben cinque posti rispetto al 2013 quando si era collocata alla non molto meno lusinghiera 10^ posizione. Cosa si possa provare ad essere felici a stare a Brindisi, a noi indigeni appare mistero imperscrutabile. La ragione deve cedere il passo alla emozione se si considera che Seneca sentenziava – e a ragione – che “nessuno lontano dalla verità può dirsi felice”.
Ma lui era filosofo e serio per giunta! A Brindisi quanto siamo lontani dalla verità lo dimostriamo con la stravaccata posizione e passiva rassegnazione con cui ci adeguiamo ad ogni situazione. Dalla più vera alla più inverosimile. La malacarne che generazione dopo generazione ha figliato il prototipo brindisino è stata denunciata a più riprese.
Per restare agli ultimi decenni, lo ha fatto l’arguto e mai sufficientemente compianto Pino Indini, tratteggiando il carattere del personaggio di Coco Lafungia. Prima di lui Giovanni Guarino, con le parole delle sue canzoni e giusto per fare tre ma non ultimo, con i versi delle sue poesie, Ennio Masiello. Se infondo tutti i brindisini indigeni si riconoscono nel passo di Guarino “Penza cu mangia e mbivi / e no ti’ndi’ ncaricari / si fessa ci ti privi / di rrobba e di mangiari” finendo col vivere una vita le cui deleghe di responsabilità sono regalate a terzi, o passivi come nel “Cati piru ca ti mangiu” di Masiello, resta poco di felice da attribuire ai brindisini nel vivere la propria terra.
Per capirci qualcosa bisogna fare riferimento al Paradosso di Easterlin secondo cui la ricchezza e il benessere che ne consegue è inversamente proporzionale alla felicità, dando rilevanza matematica all’antico adagio popolare secondo cui la ricchezza non rende felici. Se dobbiamo restare pertanto a questa ultima considerazione, l’alto tasso di felicità di cui si fregia Brindisi è dovuta alla estrema precarietà della ricchezza di cui dispone. E allora sì, che è meglio ridere che piangere.