Il postino/ Racconti al balcone di Ida de Giorgio

Tina sbirciò fra le fessure della persiana. La strada era ancora deserta eppure erano già le dieci. Quel maledetto postino era in ritardo. Finalmente lo vide svoltare l’angolo. Arrivò davanti al portoncino, prese una manciata di buste dalla borsa, ne controllò l’indirizzo e poi suonò il campanello. O meglio, Tina ne era convinta, fece finta di farlo perché nessuno squillo interruppe il silenzio dell’appartamento al primo piano. Dopo qualche secondo, l’uomo proseguì il suo giro. Andava avanti così da giorni. Per qualche strano motivo, quell’insulso individuo aveva smesso di consegnare la posta al civico 17 di via Petrucci, togliendole l’unico momento di svago della giornata. Non è che ricevesse chissà che, ma anche una bolletta o un opuscolo pubblicitario le dava occasione di scambiare qualche parola. “Signora Argenti, oggi due buste” rispondeva l’uomo a voce alta al “Chi è” di Tina. Poi era così gentile da salire fino alla porta. A volte entrava per un caffè e si lamentava del tempo prima di riprendere il lavoro. Da quando era rimasta vedova e, peggio, da quando la frattura del femore la costringeva a camminare con un bastone, Tina si sentiva una reclusa. La sua dirimpettaia Dora, che prendeva il tè insieme a lei ogni pomeriggio, era andata a vivere a Genova dalla figlia e aveva messo in vendita l’appartamento. L’unica compagnia, una volta la settimana, era la tuttofare rumena che le puliva la casa e le faceva la spesa.
Quella ragazza, però, conosceva poco l’italiano e le sue frasi striminzite erano sempre piene di strafalcioni grammaticali che Tina non sopportava. A volte non riusciva neanche a incontrarla, perché era mattiniera. Apriva la porta con la sua chiave, quando Tina era ancora a letto, e sgusciava via prima che si alzasse. Quanto a suo figlio, l’unico sforzo disposto a fare per la madre era ritirarle la pensione e provvedere a pagare le varie utenze, per poi lamentarsi continuamente di come fosse egoista nell’ostinarsi a rimanere in casa da sola, invece di andarsene nella splendida casa di riposo che la caritatevole moglie le aveva consigliato. “Un albergo a cinque stelle altro che ospizio” era la tiritera che ripeteva nell’unica visita mensile che si degnava di fare, prima di accusarla di essere una vecchia testarda così retrograda da non avere ancora la domiciliazione bancaria delle fatture.
Tina reagiva ignorandolo. A dire la verità, l’opuscolo del pensionato lo aveva studiato bene. Era davvero un posto bellissimo con tutta una serie di iniziative per non annoiarsi mai. Ma conosceva lo sguardo rapace di sua nuora che, durante le rarissime visite, sembrava inventariare il contenuto dell’appartamento e tradurlo in denaro. Tina non era ancora pronta a veder scomparire i sacrifici suoi e di suo marito. Avrebbe resistito fino alla fine. E poi, a dispetto delle convinzioni del figlio, non era proprio così antiquata. Prima di cadere malamente, aveva seguito un corso di informatica all’Università della terza età e si era comprata un tablet. Almeno così passava il tempo senza sentirsi completamente fuori dal mondo. Però, l’esigenza di ascoltare il suono di una voce umana continuava ad averla. Anche se doveva accontentarsi del postino, solo un paio di minuti ogni tanto. E ora, da quasi due settimane, quel traditore non solo la evitava, ma la prendeva in giro con quella farsa della finta scampanellata. Doveva dargli una lezione. Ma come, da quella specie di arresti domiciliari? Entrò zoppicando nello studio del marito. C’erano tutti i libri di erboristeria e qualche flacone di estratti che si era portato a casa dal laboratorio, quando era andato in pensione. Si avvicinò per leggere le etichette. Una aveva il simbolo del teschio bene in evidenza.
Tintura di Aconitum Napellus. Accese il tablet e cominciò a fare una ricerca approfondita. Era uno dei veleni più potenti in natura. Non voleva ammazzare nessuno, ovviamente. Sarebbe bastato solo un lieve malore, come punizione esemplare. Bastava spalmare un po’ di liquido sul campanello. Giorno per giorno il contatto con la pelle del polpastrello avrebbe prodotto degli effetti. Giusto una dermatite, uno sfogo, al massimo una piaghetta. Scovò l’occorrente in uno dei cassetti della scrivania: guanti, mascherina e un pennellino. Doveva stare attenta. Aspettò la notte. Scese con estrema lentezza le scale, aprì il portone, si guardò intorno, poi passò all’azione. Aveva pensato di spalmare prima un po’ di colla così il veleno sarebbe rimasto appiccicato al dito del postino: dato che lo poggiava appena appena, per far finta di suonare, doveva essere sicura che aderisse alla pelle.
Controllò che non si notasse nulla, prima di risalire. Per qualche mattina, l’uomo continuò a passare, poi smise. Tina stava facendo colazione, quando lo squillo la fece sobbalzare. “Posta” gridò una voce di donna. Il piano aveva funzionato, pensò Tina, complimentandosi con sé stessa. Chiese alla nuova arrivata di salire. La ragazza le consegnò un mucchietto di buste. “E il solito portalettere?” le chiese. “In ospedale, ha una specie di avvelenamento, non capiscono cosa gli sia successo”. “Bene” pensò, “quel maleducato aveva avuto quello che si meritava”. Avrebbe ripulito il pulsante quella sera stessa. Stava per chiederle se gradiva un caffè, quando sentì passi sulle scale. Un giovanotto in giacca e cravatta, con la cartellina di un’agenzia immobiliare, arrivò sul pianerottolo. “Buon giorno signora, adesso funziona il suo campanello? Ieri ho mandato un tecnico per riparare il citofono. Era rotto da molto tempo. Alcuni clienti si sono lamentati, perché aspettavano inutilmente che qualcuno aprisse per poter visitare l’immobile in vendita. Non se n’era accorta?”.