di MASSIMO MANFREDA
Émile de Girardin, giornalista francese, osservò: “La forza dei governi è inversamente proporzionale al peso delle imposte (Il socialismo e l’imposta, 1850).
Nel nostro odinamento tributario è, tra i tanti, previsto il meccanismo della “ritenuta d’acconto” in forza del quale il soggetto -che si chiamerà “sostituto d’imposta”-emittente una fattura, detrae dall’importo imponibile un percentuale che verserà allo Stato al posto del destinatario della fattura.
Nel caso in cui il sostituto d’imposta non versi tali somme all’erario ne risponderà, anche in sede penale ove gli importi superino determinate soglie, cosidette di punibiltà.
Un imprenditore, che tuttora occupa 40 dipendenti (40 FAMIGLIE), nel 2008, in piena crisi mondiale, maturava un debito verso l’erario per ritenute fiscali, effettuate, pari a euro 150.000 circa; la suà società aveva crediti verso fornitori, ammontanti a circa un milione di euro, che per la congiuntura non riusciva ad incassare.
Giunte le scadenze per versare le somme che erano state accantonate, quale sostituto d’imposta, e privo di altra cassa, il nostro imprenditore aveva tre possibilità:
• versare le somme all’erario e non pagare stipendi;
• mandare tutto per aria;
• corrispondere gli stipendi e differire il pagamento delle ritenute.
Il nostro, ovviamente, ha:
• pagato gli stipendi ai propri dipendenti;
• differito il pagamento delle ritenute, che è stato regolarmente effettuato, due ani dopo, con gli interessi e le penalità.
E cosi è incappato in quella situazione che Fassina ha definito “evasione di necessità” e si è materializzata la Pretesa Punitiva (non proprio come l’esattore dall’alto cilindro di Cristo si è fermato ad Eboli) dello Stato.
E’ noto che in materia alcuni giudici (Lecce, Milano, Roma, Genova) hanno ritenuto, per varie ragioni prettamente tecniche, di prosciogliere –in questi casi- gli imprenditori specie ove la situazione di illiquidità non sia determinata da episodi di mala gestio aziendale; ve ne sono altri che, a fronte di una normativa particolarmente rigida, non ritengono di accedere a tale scuola di pensiero. A’ la roulette.
La conclusione è che il nostro imprenditore porterà sicuramente e sul proprio destino- i segni, che ha cagionato ferite personali; come lui credo molti altri, a volte con nefaste conseguenze.
Ma e’ possibile –salvo non mi sfugga qualcosa- che il nostro legislatore non si ponga il problema della “evasione di necessità”?
E non è auspicabile che le associazioni di categoria –datoriali e dei lavoratori- facciano partire, come a livello nazionale hanno speso dimostrato con grande senso dello Stato, una iniziativa magari dal nostro martoriato territorio?