
di EMILIO MOLA
Le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Ercole Penna, Fabio Luperti, Simone Caforio, Giuseppe Passaseo e Roberto Di Lauro, si sono dimostrare “lucide, precise e analitiche”, “corredate di dati specifici” su tempi e circostanze, “mai inquinate da accanimento verso gli imputati”. È quanto scrivono i giudici del tribunale di Brindisi Valerio Fracassi (presidente), Stefania De Angelis eVittorio Testi nelle 300 pagine di motivazioni alla sentenza con cui lo scorso 23 maggio hanno condannato i dieci presunti affiliati alla cosiddetta “frangia mesagnese” della Sacra Corona Unita: Daniele Vicientino (24 anni di reclusione), Albino Prudentino (13 anni), Gennaro Solito (14 anni), Angelo Cavallo (14 anni), Giovanni Vicientino (14 anni), Tiziano Maggio (13 anni), Nicola Nigro (12 anni), Tobia Parisi (13 anni), Bruno Bembi (1 anno e 6 mesi), Maurizio Vicientino (7 anni).
Le manette scattarono all’alba del 28 settembre di tre anni fa nell’ambito dell’operazione denominata “Calipso”. I dieci furono arrestati dai carabinieri del Ros con l’accusa di aver a vario titolo diretto e fatto parte di un’organizzazione criminale di stampo mafioso dedita principalmente allo spaccio di droga e alle estorsioni. Un’undicesima ordinanza di custodia cautelare in carcere fu notificata ad Ercole Penna, alias “Linu lu biondu”, tra i capi del sodalizio. Una volta in carcere Penna decise, dopo un’esistenza spesa a respirare malavita, di chiudere i conti col passato. Varcò la soglia che lo portava dalla parte dello Stato, confessò tutto, anche un omicidio per il quale era stato assolto, dimostrando la genuinità delle sue intenzioni. Per mesi rivelò agli inquirenti ogni segreto del sodalizio che fino a poco prima aveva diretto col grado più elevato per un affiliato, quello di “diritto al medaglione con catena”, senza mai un blackout o una contraddizione, collezionando una serie impressionante di rivelazioni sui suoi vecchi compagni di malaffare che i giudici, tre anni dopo, hanno avallato definendole “formidabilmente riscontrate”
L’avvio delle indagini
Le motivazioni della sentenza, depositate lo scorso 12 agosto, elencano in 300 pagine le ragioni che hanno spinto lo stesso collegio giudicante a condannare i dieci imputati. A dare avvio alle indagini furono le dichiarazioni di altri pentiti (Di Lauro, Passaseo, Caforio e Luperti), che parlarono dell’esistenza di una potente frangia della Scu brindisina, quella mesagnese appunto, guidata da Ercole Penna e Daniele Vicentino, luogotenenti a piede libero di Antonio Vitale e Massimo Pasimeni, allora confinati tra le mura di un carcere.
Un fazione del consorzio mafioso nata dalle ceneri della vecchia Scu, retta da una nuova struttura non più piramidale, bensì federale, risoluta a porre fine anche agli anacronistici riti di affiliazione. Dichiarazioni, quelle dei pentiti, che trovarono subito riscontro nelle indagini che seguirono. Intercettazioni e pedinamenti portarono alla luce l’esistenza di un gruppo criminale capace di immettere sul mercato quintali di droga (soprattutto hascisc e marijuana) acquistata in Calabria, ma anche di estorcere denaro a commercianti e imprenditori facendo leva su quel potere d’intimidazione di cui solo un’associazione mafiosa, per definizione, può essere capace.
La nascita della Nuova Scu
Stando alle dichiarazioni inanellate dai collaboratori di giustizia, la cosiddetta “frangia dei mesagnesi”, capeggiata da Antonio Vitale e Massimo Pasimeni (e prima ancora da Massimo D’Amico, poi pentitosi) si impose sul finire degli anni ’90 su tutto il territorio provinciale deponendo i vertici storici Giuseppe Rogoli (fondatore della Scu), Ciro Bruno, Salvatore Buccarella, Giuseppe Gagliardi e Antonio Donatiello.
A capo del gruppo, capace di prendere in poco tempo il sopravvenuto su tutti gli altri sodalizi sacristi allora operanti nei comuni del Brindisino, si imposero Ercole Penna e Daniele Vicientino, entrambi luogotenenti dei capi riconosciuti Massimo Pasimeni e Antonio Vitale, ed entrambi promossi al più elevato grado tra quelli originariamente previsti dallo statuto della Scu: quello di “diritto al medaglione con catena”.
La decisione di riorganizzare la struttura del consorzio criminale fu presa a seguito della crisi che la Sacra Corona Unita brindisina imboccò sul finire degli anni ’90, sfiancata dalle continue rivalità interne, ferita dal pentimento del suo vecchio capo Massimo D’Amico e decapitata dalle operazioni di polizia “Cerbero” e “Mediana”.
La nuova struttura della mafia mesagnese.
Il progetto di riorganizzazione impostato dai nuovi capi, prevedeva la modifica della vecchia struttura verticistica, dimostratasi nel tempo fragile poiche troppo esposta ai “pentimenti” degli affiliati. Al fine quindi di proteggere se stessi e la rinascente organizzazione dai rischi connessi alla eccessiva e incontrollata diffusione delle informazioni tra gli affiliati, i nuovi boss deciso di articolare il sodalizio in due livelli organizzativi: il primo, gestito direttamente dai vertici, era finalizzato a coordinare gli aspetti generali (“macrostrutturali”) del consorzio mafioso; il secondo, guidato da singoli responsabili di zona in ogni paese della provincia, fu ideato per coordinare in sostanziale autonomia le singole cellule (“microstrutture”) operanti sul territorio e a curare direttamente i rapporti con gli affiliati.
Il collegamento tra la “macrostruttura” e i singoli sottogruppi sarebbero stati gestiti dai cosiddetti “responsabili” di zona: referenti unici con i vertici delle attività realizzate nei paesi di loro competenza. L’organizzazione che, per questa sua inedita articolazione, fu definita dallo stesso Penna “federalista”.
Addio ai riti “magici” di affiliazione
Sempre al fine di rendere la rinata Scu meno tracciabile, quasi invisibile, i suoi nuovi promotori decisero di abbandonare anche gli antiquati riti di affiliazione, ritenendo sufficiente il semplice rapporto di fiducia tra uomini d’onore per considerarsi parte dell’organizzazione. A spiegarlo agli inquirenti è uno degli stessi ideatori del nuovo corso, il pentito Ercole Penna: “Si guardava alla serietà della persona – spiega – alla correttezza. Se era in grado di portare avanti una determinata situazione gli si dava fiducia e faceva parte a tutti gli effetti dell’organizzazione, senza fare quei riti magici, come li chiamo io”. Per Penna e i nuovi vertici l’affiliazione, il giuramento, la pungiuta, la sceneggiata del santino bruciato non avevano più alcuna importanza: “anzi, era più utile per noi non affiliare, proprio per l’esperienza che c’è stata. In passato quando si doveva affiliare una persona si usava passarla prima per ‘novità’. Per novità vuol dire passare la voce, informare tutti gli appartenenti all’organizzazione che una tale persona sta entrando a far parte dell’organizzazione, quindi tutti lo venivano a sapere ed era già un marchio. Con le varie collaborazioni che ci sono state poi, tutto veniva subito scoperchiato, e si bruciavano tante persone”.