La banda del bancomat: auto blindate, pistole e chiodi a tre punte per coprirsi la fuga

Avevano preso ogni precauzione possibile: blindando le auto e se stessi con giubbotti antiproiettili – vedi mai un possibile conflitto a fuoco con le forze dell’ordine – e munendosi di chiodi a quattro punte da disseminare lungo la strada in caso di inseguimenti. In pieno stile Arsenio Lupen. Ma non è servito. Sulla testa della banda del bancomat, che rastrellava migliaia di euro in tutto il Salento facendo saltare per area gli sportelli con gas insufflato al loro interno, si abbatte oggi una nuova ordinanza di custodia cautelare. I cinque brindisini, già arrestati lo scorso 8 agosto mentre tentavano di svaligiare nottetempo la cassa continua del Monte dei Paschi di Siena a Monteiasi (Taranto), sono accusati di altri tre colpi: due falliti, uno riuscito.

Gli arrestati

Il provvedimento, spiccato dal gip Giuseppe Licci su richiesta del pubblico ministero Marco D’Agostino che ha diretto le indagini affidate sul campo ai carabinieri, riguarda Gianluca Giosa, di Brindisi, 34 anni, Pietro Leone, 40 anni di Villa Castelli, Oronzo D’Urso, 33 anni, Francesco Barnaba, 37 anni e Cosimo De Rinaldis, 30 anni, di Ceglie Messapica.

Il capo banda e gli incarichi
Ognuno all’interno della banda rivestiva un ruolo ben preciso. I compiti erano prefissati, gli incarichi cristallizzati in una sistema che non doveva incepparsi, i cui ingranaggi dovevano essere ben oliati e funzionanti.
Leone, secondo quanto emerso dalle indagini, era il capo della baracca. Lui decideva quando e dove colpire, lui era quello alla guida delle auto. Lui ero il tizio scaltro che aspettava i complici al volante e col motore acceso così, se beccati con le mani nel bancomat, sarebbe fuggito infischiandosene degli altri: come poi effettivamente accaduto.
De Rinaldis era l’addetto alla forzatura delle porte d’ingresso alle banche, dal momento che una volta innescata l’esplosione bisognava comunque accedere nella filiale per recuperare i contanti. Ma stava anche a lui il compito di procurare le bombole di gas e ossigeno per i colpi.
Barnaba e Giosa si occupavano invece dell’immissione all’interno dello sportello bancomat della miscela esplosiva, mentre a D’Urso era affidato l’immancabile compito di vigilare, di controllare che non vi fossero occhi indesiderati sui suoi colleghi di malaffare. Insomma, era il “palo”.

“Altri due colpi e andiamo in ferie”
Oltre che ben organizzati, i cinque componenti del gruppo erano anche, a detta del procuratore Marco Dinapoli: “Particolarmente arroganti”. Prova ne sia una delle ultime conversazioni intercettate dai carabinieri che hanno condotto le indagini. Leone parla con Giosa. E’ il 7 agosto, fa caldo, e ferragosto è alle porte. Qualcuno vorrebbe già spalmarsi la crema addosso e godersi le meritate ferie. Il capo banda anche, ma vorrebbe trascorrere le vacanze con la mente sgombra da patemi finanziari domestici. Qualche contante in più farebbe comodo, e pensa a qualche altro sportello bancomat da far saltare. Barnaba gradirebbe defilarsi. Così Leone suggerisce a Giosa il suo programma: “Se Ciccio non vuole venire io vengo. Andiamo, ne facciamo un altro paio veloci veloci, e poi stiamo un po fermi no?”.

L’ultimo assalto
Il desiderio di Leone di godersi le ferie con qualche spicciolo in più in tasca, costerà pero caro al gruppo. I sodali decidono si ripulire la cassa continua del Monte Paschi di Siena a Monteiasi (Taranto). L’appuntamento è per le 3. Ma ritarderanno di 40 minuti. Che quella non sarebbe stata al loro serata i cinque avrebbero dovuto capirlo subito. Prima si vedono costretti a temporeggiare a causa di uno tizio che, nel palazzo di fronte, colto evidentemente da insonnia o forse gettato giù dal letto dall’afa, decide di godersi il panorama affacciato alla finestra, godendosi lentamente il piacere di una sigaretta. Quando decide di tornare fra le lenzuola la banda opta per un altro rinvio. C’è un’auto, un’auto molto simile a quelle in dotazione alle forze dell’ordine. Si insospettiscono, girano per un po’ a vuoto, poi decidono di passare all’azione. E si va in scena. Il copione è il solito: D’Urso fa il palo, Leone attende in auto a motore acceso, Rinaldis forza l’ingresso, gli altri due danno gas al bancomat. Per i carabinieri è quello il momento di agire: prima dell’esplosione. I cinque vengono circondati, tutte le strade sono bloccate. Abbozzano un tentativo di fuga. Poi si fermano, non c’è scampo. Era l’ultimo giro di giostra.

Le indagini
Per i carabinieri del comando provinciale di Brindisi e per la Procura, un successo inseguito a lungo. E costato tanto, tantissimo: in termini di uomini impegnati per mesi sul campo (almeno 25 ogni sera, più una mezza dozzina di ufficiali), di risorse economiche per le intercettazioni, di controlli e pedinamenti. Ma Dinapoli sul punto è inflessibile: “Fino a che sarò a capo di questa procura – ha detto – io non baderò a spese”.

Il primo assalto fallito e la svolta
La svolta al lavoro degli investigatori è arrivata due mesi prima del blitz dell’8 agosto: il 16 giugno scorso. Il gruppo quella notte decise di assaltare l’ufficio postale di Cisternino, nella frazione di Casalini. Giunsero sul posto con un’Audi A6 SW di colore scuro. Scesero in tre, tutti agghindati con abiti neri e i volti nascosti sotto gli immancabili passamontagna. I carabinieri della compagnia di Fasano erano lì, a pochi metri, appostati in attesa che il gruppo aprisse le bombole. Ma l’operazione inciampò in un imprevisto: i ladri avevano con sé uno scanner che permetteva loro di intercettare i carabinieri. Appena realizzarono d’essere in trappola rimontarono a bordo dell’auto. Nel tentativo di sottrarsi alla tenaglia dei militari cercarono di investirne due. I carabinieri risposero esplodendo alcuni colpi di pistola. I fuggitivi, per non essere riconosciuti, decisero di abbandonare l’auto nelle campagne poco lontane. Nella vettura, subito ritrovata, gli investigatori trovarono gli strumenti per lo scasso, un secchio pieno di chiodi a tre punte per forare i pneumatici di eventuali inseguitori, tracce di sangue sul sedile anteriore lato passeggero, uno scanner sintonizzato sulle frequenze delle forse di polizia; una lastra in metallo che separava il vano portabagagli dai sedili posteriori.

Un’altra Audi A6 Sw fu rubata pochi giorni dopo a Ostuni. Per gli investigatori era il segnale che la banda intendeva colpire ancora: e sempre con la stessa auto. Le ricerche si concentravano sui comuni di Grottaglie (Taranto), Ceglie Messapica e Villa
Castelli. Nell’area compresa fra i tre comuni, infatti, erano stati compiuti tutti i furti ai danni di sportelli bamcomat e postamat. Peraltro alcune segnalazioni anonime indicavano che un’autovettura di grossa cilindrata, di colore scuro, era occultata in un nascondiglio della zona, nei pressi di Contrada Monte Scotano direzione Monte Fellone, in agro di Martina Franca. A Monte Fellone risiedeva Pietro Leone.