Caro negoziante, grazie alla crisi ora sono il benvenuto

Caro commerciante brindisino,

mi dispiace vedere quanto te la passi male. Mi dispiace davvero. Innanzitutto perchè ho profondo rispetto per qualunque lavoro ma anche perchè è dal mio grado di frequentazione con il tuo negozio che valuto il mio progressivo impoverimento. E se te la passi male è proprio perchè io vengo sempre meno a trovarti. C’è la crisi e non posso più permettermelo. Non posso più permettermi di assecondare i miei desideri poiché devo fare costantemente i conti con i miei bisogni. E la differenza, come certo avrai intuito, è tutta qui.

Ancora poco tempo fa, io e mia moglie, venivamo di tanto in tanto rapiti da un canto di sirena che si presentava sotto forma di merce : la giacca di cachemire, la sciarpa di Etro, quei pantaloni dal taglio particolare, il formaggio francese, la frutta esotica, le irresistibili scarpe scamosciate, i due tre libri del momento, il bluson noire sempre desiderato, le confezioni di merendine da dodici, la cioccolata cubana, la lingerie di livello, la bigiotteria più elegante o il rum dal Demerara. E la Nutella. Per la sera, di fronte alla televisione. Certo, non tutto.

Ogni cliente rispondeva alle note a lui più consone, ogni compratore si premiava con i trofei più appropriati, ognuno riteneva di meritare che quei piccoli desideri venissero esauditi con la semplice estrazione del portafogli dalla tasca o con l’esibizione della carta di credito. E, come sempre, ai figli, ogni cosa. E ogni cosa aggiunta, superflua, quasi eccedente. Eravamo tutti più felici; e tu più ricco. Era una felicità semplice per la quale non c’era bisogno di scomodare la psicanalisi. Niente di compulsivo, di sostitutivo di amori genitoriali mancanti o di recenti abbandoni da parte di amanti infedeli. Roba semplice insomma: mi piace e me lo compro. Sempre con garbo, con misura, cum grano salis però, che ricchi ricchi non lo siamo mai stati. Tutto ciò fino a poco tempo fa.

Ora, invece, soddisfo in modo più triste e prosaico esclusivamente i miei bisogni. Programmo con scientifica precisione l’acquisto dei pantaloni che proprio mi servono, recupero dalla mia libreria qualche libro già iniziato, cerco di dare nuova vita al giubbotto che non mettevo più, mi mantengo su dosi salutari (quindi scarse) al supermercato, mi convinco quanto sia giusto ed educativo acquistare l’essenziale per la prole. E ho scoperto che la Nutella fa male ai denti ed alla linea. I miei consumi sono quindi dimezzati perchè il resto è mutuo, bollette e, se rimane, qualcosa da parte per l’incerto futuro. Ecco perchè ci vediamo sempre meno e siamo tutti e due più tristi : perchè io sono meno soddisfatto e tu con meno introiti. Certo non ci manchiamo come persone che, a dire il vero, non ci siamo mai amati. Capisco che avere a che fare con me cliente non è facile : sono indeciso, ti faccio perdere tempo, sono ziccusu e a volte pure cafone. Ma non è che tu hai mai brillato per simpatia. Alcune volte, già entrando nel tuo negozio, mi sentivo sopportato, Era come se ti avessi distolto da chissà quali pensieri esistenziali; era come se la mia presenza,li, a quell’ora, fosse la cosa più inaspettata che potesse capitarti.

Nessun sorriso, nessun saluto, niente di niente. Sembrava che da un momento all’altro tu potessi scaricarmi addosso la famosa frase tipo Pretty Woman “Mi spiace non abbiamo niente per lei”. Il tuo malumore cresceva poi in modo proporzionale alla mia sacrosanta indecisione. Ma come potevo accontentarmi di quelle scarpe più piccole di mezzo numero, che tanto poi cedono un po’, o di quella giacca che mi stava come la tuta di pulcinella? E tu eri lì, sempre più nuvoloso e, non avendo la 46 marrone, l’ultimo libro di Stephen King, la ricotta vaccina, il coordinato fucsia o il whisky Caol Ila, o qualsiasi altro oggetto del desiderio, tentavi di spiegarmi che la 48 verde mi cadeva a pennello, che il più venduto del momento era Andrea De Carlo, che la ricotta caprina quel giorno era davvero speciale, che era il color carne ad andare di moda e che il Bowmore non temeva paragoni. Da li, caro commerciante, e cioè, dal momento in cui, sprovvisto della merce da me richiesta, me ne proponevi un’altra, si dipartivano strade fra le più accidentate. Il “buonasera, grazie lo stesso” senza aver effettuato l’acquisto era fra le più dure da percorrere: nei pochi metri che mi separavano dalla porta d’ingresso, nel silenzio tombale venuto a crearsi a causa del mio diniego, eri capace di sguardi malevoli e fulminanti o, peggio, di borbottii incomprensibili dalla cui influenza nefasta riuscivo a liberarmi solo molto lentamente.

La strada dell’acquisto e del ripensamento con il ritorno per l’eventuale sostituzione era poi impresa inumana alla quale sovente ho rinunciato consegnando, a casa, all’ultimo cassetto di sotto, il maglioncino o la giacca che non avrei mai messo. Lecce, Bari, persino Francavilla Fontana e, più raramente, Roma sono state spesso le mete scelte con la scusa della passeggiata e del più vasto assortimento per allontanarmi da questa rete commerciale non proprio entusiasmante. Il viaggio, il più delle volte, valeva la pena. Ora è tutto diverso. La crisi ha reso sfaccendate le commesse ancora non licenziate, i negozi sono vuoti e le vendite, naturalmente languono. Vedere per strada qualcuno con due tre shopper – le borse adesso le chiamiamo così – di Caravaglio, di Taitù o di Diego induce a pensare a fortunose vincite al gratta e vinci o ad atteggiamenti penalmente rilevanti. Anch’io passo, guardo, desidero, faccio di conto e tiro avanti. Di buono c’è solo che ora sono il benvenuto ovunque ; salutato col calore dell’attesa, rincorso nei miei capricci, compreso nelle mie indecisioni e addirittura l’altro giorno mi hai fatto pure lo sconto : “Viene 13, 90 “ mi hai detto dopo aver confezionato un pacchettino che da solo mi avresti fatto pagare due euro fino a poco fa. E poi, ammiccando , guardandomi fisso negli occhi mi hai confermato “13 vanno bene”. E hai pure sorriso. Benedetta crisi !

Absit iniuria verbis.

A.Serni

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