“Trovai Marcella sfigurata, sotto il corpo c’era un serpente: era una brava ragazza, il nostro rammarico è non aver mai preso i suoi killer”

di GIANMARCO DI NAPOLI

Il suo nome di battaglia era “Trottolino”. Negli anni Novanta era uno degli uomini di punta del Nucleo operativo dei carabinieri di Brindisi: fu lui a catturare dopo un appostamento in una buca durato giorni, Massimo Pasimeni, all’epoca latitante. L’Arma mise in piedi con quel Nucleo la prima struttura investigativa che affrontò frontalmente la Sacra corona unita che muoveva i suoi primi, sanguinosi, passi. Fu di quei militari, che si muovevano rigorosamente in borghese, il primo rapporto alla magistratura che segnalava l’esistenza a Mesagne di un’organizzazione mafiosa, quando ancora in Italia le mafie conosciute erano soltanto tre.

Fu lui a intervenire per primo quando il cadavere di Marcella Di Levrano fu trovato, martoriato a colpi di pietra, in un bosco tra Brindisi e Mesagne.

“Era un caldo pomeriggio, in quel bosco:  la flora era rigogliosa e tra i cespugli di mirtilli la povera Marcella era distesa a pancia in su. Vestita con blue-jeans e, se non ricordo male, con una maglietta dello stesso colore. Aveva il cranio fracassato, completamente nera in volto. Dopo che il medico legale e la scientifica ebbero effettuato tutti i rilievi tecnici, si tentò di rimuovere quel corpo martoriato: da sotto la salma uscì, dileguandosi, un serpente (foto grande, ndr). Fu un’immagine orribile che rese ancora più tragica e indimenticabile quella scena”.

I carabinieri la conoscevano bene perché era diventata una loro informatrice. Ma chi era davvero Marcella Di Levrano?

“Era una brava ragazza. Purtroppo si faceva di eroina. Era dolce con tutti e credo lo sarebbe stata anche con la figlia e la sua famiglia che le mancavano tanto. Non parlava molto dei suoi affetti e ogni volta che le si chiedeva qualcosa cambiava sempre discorso. Sapevamo che viveva con la nonna e la incontravamo sempre, durante i pomeriggi caldi e assolati, seduta sul gradino d’ingresso della casa dei nonni che se non ricordo male era in via Malvindi, a Mesagne. Quando stava bene era solare, scherzava sempre. Contrariamente ad altri “informatori” non ci ha mai chiesto soldi, era dignitosa nel suo problema. Più volte le proponemmo di andare in comunità, io stesso telefonai a don Pierino Gelmini, che conoscevo personalmente, per sentire se poteva andare ad Amelia, ma lei non ha mai voluto saperne, credo a causa della presenza della figlia”.

La madre di Marcella rimprovera alle forze dell’ordine di non averla protetta adeguatamente, nonostante si esponesse fornendo notizie sulla malavita locale.

“La protezione, che all’epoca si poteva dare a chi la chiedeva, era molto poca. Non esistevano ancora tutte le strutture ministeriali che oggi si occupano delle persone che decidono di uscire dai brutti giri. Marcella non aveva paura e non ha mai chiesto aiuto se non per uscire dalla droga, ma solo con il metadone. E senza un sostegno morale non poteva farcela. Proteggerla non era facile: era un’anima libera, non si sarebbe mai sottoposta a quella struttura che, se pur in modo embrionale e provvisorio, avevamo costituito a Brindisi. Poi all’epoca non c’erano donne nelle forze dell’ordine e provate a immaginare cosa poteva significare ospitare una ragazza in una caserma, come si faceva con i collaboratori di giustizia, in un mondo che all’epoca era a dir poco unisex”.

Marcella avrebbe potuto raccontare vicende e fare nomi tali da creare problemi seri alla Sacra corona unita?

“No, Marcella non era al corrente delle dinamiche mafiose dell’epoca. Conosceva gli spacciatori per necessità, ma non sapeva far male ad una mosca. Inchiodare i boss significava conoscere affiliazioni, struttura piramidale, assoggettamenti, fiancheggiatori e lei sicuramente non li conosceva, se non qualche grossista di eroina oltre ai piccoli spacciatori”.

La Sacra corona ha dimostrato di non avere remore nel colpire anche le donne.

“Assolutamente: la Sacra Corona Unita, non ha mai avuto problemi a spare alla cieca, su donne e bambini, la mattanza delle donne cominciò con Nicolina Biscozzi, convivente di Vincenzo Carone, passando da Silvana Foglietta, convivente del boss Cosimo Persano, e per finire alla povera Salvatora Tieni madre della testimone di giustizia Cosima Guerriero. Tantissimi sono stati i femminicidi mafiosi nel nostro Salento. La donna è sempre stata considerata un’alleata e una complice affidabile dai mafiosi della Scu”.

Marcella avrebbe potuto sperare di uscirne davvero?

“Avrebbe potuto e dovuto uscire dal giro della tossicodipendenza ma a un certo punto si è ritrovata sola a combattere con se stessa e con il veleno che la distruggeva. Doveva essere portata via dal contesto mesagnese di quel periodo e trasferita, magari con la figlia, e se fosse stato necessario anche con la forza, fuori da quel mondo dove l’abbandono da parte delle strutture deputate alle tossicodipendenze era pressoché totale. Invece è rimasta lì, a combattere contro i fantasmi che aveva dentro. E non ce l’ha fatta. Non aver catturato i suoi assassini è un tormento che tutti noi di quel Nucleo ci siamo sempre portati dentro”.