Potrebbe esserci il racket del rame e del ferro dietro il sanguinoso raid di sabato mattina alla Eco Rottami. E, se così fosse, si avrebbe la prova che dietro i furti di tonnellate di materiale, un tempo commessi da ladri sprovveduti che spesso perdevano la vita tentando di portare via le reti elettriche pubbliche, esiste un’organizzazione che agisce con metodi mafiosi, e che non esita a fare fuoco.
Il primo a fare le spese di questo salto di qualità sarebbe proprio Valerio Semeraro, l’imprenditore brindisino ferito, per fortuna solo di striscio, all’interno della sua azienda. Il ferro e il rame, soprattutto quando rubati in quantità industriale, necessitano di acquirenti che si riforniscano senza fare troppe domande sulla provenienza del materiale.
E’ probabile che il movente dell’attentato alla vita di Semeraro sia proprio legato al tentativo d’affermazione di una banda, e sia anche una dimostrazione di forza utile a intimidire altri possibili acquirenti. Un azione di fuoco portata a termine in grande stile, forse volutamente teatrale e non a caso eseguita utilizzando un’auto, l’Alfa 164, che nei periodi di massimo fulgore della malavita brindisina era una sorta di vettura d’ordinanza.
Nei giorni precedenti all’attentato pare che Semeraro fosse stato protagonista di una discussione molto animata proprio con alcuni venditori di materiali ferrosi. Di sicuro non emissari delle grandi aziende con cui la Eco Rottami lavora da anni. Forse ladri che cercavano ricettatori. Una eventualità quella di acquisire materiale di provenienza dubbia che non rientra nella politica della famiglia Semeraro.
I carabinieri di Brindisi, coordinati dal pm Milto De Nozza, stanno setacciando gli ambienti della malavita, anche se si ha l’impressione che esista una traccia ben precisa e una pista sulla quale stanno lavorando.
Non li aiuta, purtroppo, il sistema di videosorveglianza del quale l’azienda è pure dotato ma che era stato spento su disposizione dell’Ispettorato del Lavoro in quanto quelle telecamere puntate nel cantiere violavano la privacy dei dipendenti. Così niente immagini, ma solo i bossoli delle tre armi (una lupara calibro 12 e due pistole, una 9 e una 7,65) e la carcassa dell’Alfa 164 che era stata rubata alcune settimane fa a San Donaci e che è stata abbandonata alle porte del rione Sant’Elia.