Morgana oggi avrebbe compiuto 31 anni: da sei mesi la famiglia attende di sapere perché non c’è più

di GIANMARCO DI NAPOLI

Morgana Cairo oggi avrebbe compiuto 31 anni. La sua “festa” la celebrano in chiesa mamma e papà, le sue sorelle, i nipotini, i parenti, le amiche che non hanno smesso un giorno di piangerla. Lei non c’è da sei mesi e al dolore lancinante di una morte che solo chi ha fede può cercare di spiegare, arrampicandosi nei paradigmi della giustizia divina, si aggiunge quello straziante di una giustizia terrena che segue probabilmente i suoi farraginosi percorsi ordinari, ma difficilmente comprensibili a chi vuole una risposta a due domande: come è morta Morgana? E soprattutto: poteva essere salvata?

La mattina successiva alla sua scomparsa, prima ancora che si svolgessero i funerali, il papà Roberto e la mamma Mina Carriere, tenendosi forte per mano, ebbero la forza di recarsi nella caserma dei carabinieri di Brindisi, per raccontare con estrema precisione ciò che era avvenuto tra la sera del 2 novembre, quando Morgana era stata trasportata in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Perrino, e quella del 6 novembre quando il medico di turno del “Bellis” di Castellana Grotte aveva firmato il certificato di morte. Erano disposti a un altro strazio, Mina e Roberto: quello di far sottoporre Morgana all’ultimo tormento, quello dell’autopsia. E in fondo a quella denuncia, precisa e circostanziata, fecero scrivere che volevano che “i colpevoli fossero puniti a norma di legge”. Sei mesi dopo aspettano ancora un segnale.

La vita non era stata tenera con Morgana. A 17 anni era stata colpita da una mielodisplasia, un’anomalia delle cellule midollari che aveva combattuto con coraggio e determinazione. Con un’arma in più, quella di una famiglia straordinaria al suo fianco. Era completamente guarita otto anni fa, grazie all’amore della sorella più piccola, Clara, che le aveva donato il midollo osseo, e alla sorella Francesca che l’aveva sostenuta ad ogni passo.
Morgana periodicamente si sottoponeva a visite di controllo, per questo aveva dimestichezza con gli ospedali, così come l’aveva la mamma Mina. Ecco, in sintesi, cosa avvenne in quei quattro giorni in cui i suoi occhi verdi smisero di brillare.

La prima sera. E’ domenica 2 novembre. Morgana ha cominciato a stare male la sera prima, febbre a 39, dolori. Ma alle 19.30 non ce la fa più, telefonano al 118, arriva l’ambulanza. “Al pronto soccorso, senza visitarla ma solo facendosi riferire i sintomi, il medico di turno le prescrive una flebo di Toradol per alleviare il dolore”, racconta la mamma. Ma il dolore non passa. Morgana scrive un post su Facebook per avvisare i suoi amici: “Mi trovo al pronto soccorso”. E a una sua amica che le chiede cosa succede, risponde: “Sto male amica… malissimo, ti spiego domani”. Sarà il suo ultimo messaggio. Per Morgana inizia il calvario delle visite nei reparti: due volte Ortopedia, due volte Neurochirurgia, una volta Ematologia. Tutto in una notte. Non viene fuori nulla, tranne che dall’emocromo in cui i globuli bianchi risultano 19.000. Una situazione che può lasciar pensare a una infezione in atto ma che viene classificata dall’ematologo come una “probabile influenza”.

“Se vuole torni a casa”. Morgana, siamo a notte fonda, arriva in Neurochirurgia dove il medico di turno – visti gli esiti della radiografia e della tac – ritiene che la patologia possa essere curata con una terapia di antidolorifici. La ragazza viene riportata, sempre con dolori lancinanti, al pronto soccorso dove il medico di turno le dice che può scegliere se continuare la terapia a casa, con il supporto del medico di base, o farsi ricoverare e attendere l’esecuzione di una risonanza magnetica in ospedale. Morgana decide di restare, sta troppo male per tornare a casa. La madre rimane con lei.
All’alba viene portata nel reparto “Vascolare” seguita dagli specialisti di Neurochirurgia dove non ci sono posti-letto disponibili. La mamma fa presente al medico che la ragazza è tormentata da dolori fortissimi. Viene disposta una nuova somministrazione di antidolorifico “Toradol”. La giornata trascorre lentamente. Morgana è stordita dai farmaci e in più è angosciata da problemi sentimentali che la tormentano. Ha caldo, suda, vorrebbe spalancare le finestre nonostante fuori ci sia vento e freddo.

Antidolorifici. Morgana resta in Vascolare, sottoposta solo a terapia antidolorifica e aspettando quella famosa risonanza per cui aveva deciso di restare ricoverata. Sino a mercoledì 5 novembre, quando finalmente si libera un posto in Neurochirurgia e vi viene trasferita all’ora di pranzo. La mamma nota la presenza di uno strano bozzolo sul collo, lo fa vedere al personale ma nessuno gli dà importanza. La sera alle 20.30 chiede l’intervento di un medico perché oltre ai tormenti alla schiena ora Morgana ha dolori addominali in quanto non va in bagno da quattro giorni. “Domani mattina le facciamo un clistere”, assicura il medico. “Ma mia figlia sta male stasera”, implora la madre. “Non è possibile farlo stasera, non c’è personale”, risponde lui.
Lei non si arrende. Chiede prima a un’infermiera ma questa risponde che non è compito suo, poi a una seconda che – forse impietosita – accetta di praticarle il clistere. Poco dopo Morgana, nonostante stia malissimo, chiede alla madre di essere accompagnata in bagno. Qui quasi sviene. E’ sudata e contemporaneamente gelida. Nella notte, la sua ultima a Brindisi, sta malissimo, ma non arriva alcun medico. L’infermiera torna per due volte con una macchinetta per misurarle pressione e battito cardiaco. Non riesce invece a rilevarle la saturazione di ossigeno perché – dice – la ragazza ha lo smalto sulle unghie.

Il freddo. La situazione continua a peggiorare. Morgana ha le mani gelide, ricorda la madre. Gli strumenti registrano un picco insulinico di 290 e quindi le vengono somministrate cinque unità di insulina rapida sospendendo la terapia antidolorifica. Considerando che respira a fatica, le inseriscono i tubicini di ossigeno nel naso. Alle 4 del mattino la ragazza sta ancora peggio: “A quel punto chiamo l’infermiera che riferisce al medico di turno che però non viene a visitarla”, ricorda la mamma. “Morgana mi ha detto: portami a casa”.
Al cambio turno del mattino c’è stavolta un infermiere che ripete gli esami e stavolta riesce a misurare la saturazione, semplicemente collegando la macchinetta alla fronte invece che alle dita. La macchinetta impazzisce e va quasi in tilt.
Poco dopo cambia tutto. L’infermiere torna molto meno tranquillo, stacca il letto di Morgana dal muro e la porta di corsa in Terapia intensiva: “Non si preoccupi signora, ha bisogno di ossigeno”, tenta di rassicurare la madre. Nel frattempo un altro infermiere chiede al padre di svuotare la stanza chè il letto dovrà essere occupato da un altro paziente.

Troppo tardi. I medici si sono finalmente accorti che la situazione è gravissima, ma ormai potranno fare poco: “Alle 7.45 veniamo contattati dal primario di Neurochirurgia che ci chiede se nostra figlia ha mai avuto problemi cardiaci o polmonari. Gli rispondiamo di no”. Il medico avvisa i genitori che la situazione è preoccupante e che Morgana necessita di una terapia intensiva con ventilazione forzata. Ma al Perrino non ci sono posti. Si decide il trasferimento a Castellana Grotte.
L’ambulanza però deve arrivare da Ostuni e trascorrono più di tre ore in attesa. Sono le 11.30 quando Morgana parte verso il nuovo ospedale. La via per Castellana è lunga e tortuosa, l’ambulanza procede seguita dall’auto dei genitori della ragazza. Ma a metà strada l’autista accende la sirena e accelera.

“Quando è uscita dall’ambulanza era gonfia, non la riconoscevo più”, ricorda la madre. Alle 14 i genitori vengono convocati da un medico che li informa che la situazione è gravissima perché la ragazza era giunta in arresto cardiaco e che solo un miracolo poteva salvarla. Mentre sono nella stanza entra un secondo medico, il primario, che riferisce che la situazione si è aggravata ulteriormente e che l’attività renale era compromessa.

L’ultima lacrima. Alle 17.30 alla famiglia viene concesso di vedere Morgana. La mamma le si sede accanto: “Le ho parlato per tutto il tempo, le ho parlato di noi, di lei, del bene che le vogliamo. Aveva gli occhi chiusi, la faccia gonfia, ma ho visto una lacrima. Non avrei mai voluto andare via da quella stanza, ho capito che la stavo perdendo”.
Alle 23.45 lei è dietro la porta chiusa del reparto quando al cellulare del marito arriva la telefonata. Morgana non c’è più.
La decisione di chiedere che venga fatta chiarezza, perché ci sono troppi dubbi, viaggia di pari passo con il dolore. La denuncia presentata dalla famiglia non sortisce decisioni immediate della procura: Morgana viene sepolta e solo dopo diversi giorni il fascicolo finisce sulla scrivania del pm Giuseppe De Nozza. Il magistrato nomina due periti, un patologo e un medico legale. Ma la famiglia, che si è affidata all’avvocato Ladislao Massari, dopo sei mesi non ha alcuna notizia, anche se precisa di avere massima fiducia nella giustizia. Quel dubbio si fa ancora più lancinante perché il solo pensiero che Morgana potesse essere salvata fa male, almeno quanto la sua morte.
Intanto stasera alle 18.30, nella chiesa di Iaddico, la famiglia si ritroverà con gli amici e le amiche per sentirla più vicina, oggi che avrebbe soffiato su 31 candeline. In prima fila i genitori e le sorelle Francesca e Clara delle quali era la metà perfetta. Dicevano, sei l’altra metà di quella mela.

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