Omicidi Scu con picconi e fucili: eccome come, da chi e perché furono ammazzati

Una scia di sangue lunga tre lustri. Omicidi e ferimenti irrisolti. C’erano le vittime. In molti casi anche il tipico marchio mafioso del volto sfigurato a picconate o a fucilate, o dell’agguato col ferimento alle gambe. Mancavano però le firme a quei fatti di sangue, i nomi, i volti. Solo sospetti, piste investigative prive dei riscontri necessari a far scattare le manette, o a reggere l’accusa in giudizio. Poi sono arrivati anche quelli. Sono arrivati i pentiti. A chiudere il cerchio la parola di chi, a quei delitti di sangue, ha preso parte, o li ha perfino ordinati. Come Ercole Penna, l’uomo che la Scu brindisina all’alba degli anni duemila l’ha rimessa in piedi dopo anni di arresti e contrasti interni, e che ora, parola dopo parola, la sta demolendo. E’ stato lui a fare luce sugli omicidi di Antonio Molfetta, di Nicolai Lippolis, di Antonio D’Amico, di Tommaso Marseglia; e sui tentati omicidi di Vincenzo Greco, di Francesco Palermo, di Francesco Locorotondo, di Claudio Facecchia, di Tobia Parisi, di Francesco Gravina.

Penna, il pentito che si autoaccusa
Non che gli inquirenti e gli investigatori brindisini dell’Arma e della Polizia avessero bisogno dei suoi suggerimenti per capire chi avesse ucciso chi. Ma quando le prove concrete e tangibili scarseggiano, allora le parole di un collaboratore di giustizia che conferma e cristallizza quelle ipotesi investigative, diventano tanto preziose quanto determinanti.

Ercole Penna, passato dall’altra parte della barricata nell’autunno di due anni fa dopo il suo arresto, ha fin da subito dato prova della propria attendibilità, arrivando ad autoaccusarsi di delitti, perfino di omicidi, per i quali non era nemmeno indagato o, processato, ne era uscito pulito, come nel caso dell’omicidio di Enzo Pasimeni o quello di Giancarlo Salati. Un atteggiamento che “Linu lu biondu” ha tenuto immutato anche in questo caso, confessando di aver preso parte all’omicidio di Antonio Molfetta e al ferimento di Claudio Facecchia.

A cementare il castello accusatorio costruito da carabinieri e Squadra mobile di Brindisi sotto la direzione della Dda di Lecce, infine, anche le dichiarazioni da altri pentiti, come Fabio Panico, Simone Caforio, Tommaso Belfiore, Giuseppe e Cosimo Leo, Massimo D’Amico, Cosimo Giovanni Guarini, Danilo Calò e Alessandro Perez. Parole, le loro, che sovrapposte a quelle di Penna non hanno lasciato sbavature.

Diverse le ragioni alla base dei fatti di sangue per i quali sono scattati all’alba i 18 arresti. Regolamenti di conti motivati ora da divergenze sulla gestione degli affari; ora da offese all’onore per uno schiaffo di troppo; ora per punire, ammazzandogli il fratello, un pentito in cella. In alcuni casi gli agguati si consumavano nella logica dello stesso clan. In altri, fra esponenti di clan diversi: quello dei “brindisini” di Francesco Campana e Salvatore Buccarella da un lato, e quello dei “mesagnesi” di Ercole Penna, Massimo Pasimeni, Daniele Vicentino e Antonio Vitale dall’altro.

Omicidio Molfetta
Il più datato degli omicidi su cui solo in questi mesi è stata fatta piena luce è quello di Antonio Molfetta, avvenuto tra la notte del 29 maggio 1998 (giorno della sua sparizione) e l’otto ottobre successivo (giorno del ritrovamento del cadavere). Molfetta, affiliato alla Scu dal padrino Massimo Delle Grottaglie (clan dei mesagnesi), era considerato dagli altri sodali una “spia”, un confidente della polizia. La più grave colpa, per un affiliato, per la quale esiste una sola sanzione: la morte. La sentenza di condanna a morte fu emessa da Ercole Penna e Massimo Pasimeni. La sua esecuzione fu affidata allo stesso Delle Grottaglie: lui lo aveva portato nel clan, lui doveva ucciderlo. Ma non fu lui a macchiarsi le mani di sangue. Dell’esecuzione fisica di Molfetta si occuparono Francesco Argentieri e Giovanni Colucci. I quali prima provvidero a sfondargli la faccia con un oggetto contundente. Poi misero per sempre a tacere la presunta spia con un colpo di pistola alla testa.

Omicidio Lippolis
Stessa, identica sorte toccò un anno più tardi a Nicolai Lippolis. Troppi errori commessi senza rendere conto al clan. Che più volte aveva dovuto chiudere un occhio: quando spacciava droga senza il consenso dell’autorizzazione, quando la assumeva nonostante il divieto, quando svaligiava appartamenti in proprio. Il sodalizio tollerò ogni sconfinamento. Fino all’ultima goccia: il furto dell’auto di un altro affiliato. Lippolis fu accusato di aver rubato l’Audi 80 di Marcello Cincinnato. E questa colpa gli costò la vita. Esecutori materiali dell’omcidio, secondo quanto riferito dai pentiti, furono Antonio Epicoco ed Emanuele Guarini, su mandato dello stesso Cincinnato, di Eugenio Carbone e Giuseppe Leo. I due raggiunsero Lippolis in Montenegro. Lo scovarono, lo massacrarono a colpi di piccone e d’arma da fuoco per poi seppellirlo in una fossa appositamente scavata.

Omicidio Marseglia
Avvenne invece in Italia, e precisamente a San Vito dei Normanni, l’omicidio di Tommaso Marseglia. L’agguato fu organizzato ed eseguito da Carlo Cantanna per lavare l’onta di due ceffoni incassati durante una lite d’affari. Marseglia, uscito di galera dopo aver scontato dieci anni interminabili anni, cercò di prendersi San Vito sui Cantanna aveva già messo le mani. Ne scaturì un diverbio faccia a faccia. E a schiaffi in faccia finì. Una mancanza di rispetto da lavare col sangue. Cantanna volle occuparsene personalmente. Marseglia fu raggiunto dai sui killer mentre rientrava a casa in moto. Gli spararono diversi colpi d’arma da fuoco. Quello di grazie, dritto alla testa, fu esploso quando ormai giaceva a terra.

Omicidio D’Amico
Antonio D’Amico non aveva colpe sue. Ma pagò per suo fratello Massimo. Quest’ultimo, ai vertici del gruppo dei mesagnesi, commise due errori che nella logia di un sodalizio mafioso non possono essere tollerati. Da uomo libero cercò di strappare al clan dei “brindisini”, quello di Campana e Buccarella, uomini da traghettare nel suo clan. E dopo l’arresto, una volta in carcere, collaborò scaricò i vecchi amici e sodali denunciandoli alla Giustizia. Campana decise di fargliela pagare. Protetto dallo Stato Massimo D’Amico era ormai un intoccabile. Suo fratello no. Suo fratello Antonio amava la pesca. E l’ultima cosa che vide fu il mare. Francesco Campana e Carlo Gagliardi lo raggiunsero il 9 settembre del 2001 sulla diga di Brindisi, dove stava pescando. I due giunsero in moto. Gagliardi guidava, Campana sparò. Una raffica di pallettoni calibro 12 raggiunsero D’Amico al torace e alla testa. Non ebbe neanche il tempo di scappare.