di Marina Poci per Il7 Magazine
Lia Caprera, la responsabile e rappresentante dell’associazione “Io Donna” di Brindisi, che gestisce l’omonimo centro antiviolenza, si scusa per l’attesa: avremmo dovuto sentirci il giorno precedente, ma le donne che hanno bisogno di lei non potevano aspettare. C’era una riunione con le colleghe, poi un nuovo accesso da valutare. Nella settimana che precede il 25 novembre, data della Giornata Internazionale contro la violenza maschile sulle donne, a pochi giorni dal barbaro omicidio di Giulia Cecchettin, la ventiduenne in procinto di laurearsi uccisa dall’ex fidanzato, c’è molto da dire e vuole avere il tempo necessario a parlare con calma.
Risponde in modo gentile e pratico, professionale eppure empatico, Snocciola dati, cita fonti, confronta i numeri in termini assoluti e poi le percentuali.
Quando provo a dirle che su alcuni giornali il dato pugliese (e brindisino in particolare) sugli stupri sembrerebbe in crescita, mi chiede dove ho letto la notizia e dove, a sua volta, il giornalista che ne ha scritto l’ha pescata. “Mi scusi, ma in questi giorni si legge di tutto”, dice, come a volersi assicurare di commentare dati certi, forniti ed elaborati da fonti affidabili.
Da anni si occupa di violenza contro le donne in uno dei sette CAV presenti sul territorio della provincia di Brindisi. Insieme alle sue colleghe fornisce alle donne che vi si rivolgono ascolto, sostegno e accompagnamento nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Lavora per sensibilizzare sulla violenza di genere allo scopo di prevenirla e combattere i pregiudizi, le discriminazioni e i comportamenti lesivi della incolumità, integrità e libertà di scelta delle donne. È spesso la prima persona che le donne del territorio incontrano quando hanno bisogno di confrontarsi sulle dinamiche tossiche e disfunzionali delle relazioni che vivono, quando devono essere correttamente indirizzate a riconoscere i meccanismi violenti di cui sono vittime, quando ancora non sanno come emanciparsi dalla spirale del senso di colpa e della vergogna che purtroppo accompagnano la fine di un rapporto abusante.
Dunque, le fonti: quali sono le più affidabili?
“Per quanto riguarda la Puglia, c’è una pubblicazione dell’Ufficio Statistico Regionale che si chiama Focus: contiene il monitoraggio degli accessi ai centri antiviolenza e alle case rifugio, inviati proprio da noi operatori. La pubblicazione copre l’arco temporale dell’anno precedente, quindi qualunque dato a cui facciamo riferimento è riferito esclusivamente al 2022. Inoltre, il Ministero dell’Interno, ogni anno prima del 25 novembre emette un rapporto sulle donne uccise e, tra queste, individua quelle uccise all’interno di relazioni familiari o di intimità”.
Dal combinato disposto di queste due fonti, cosa è possibile evincere rispetto alla nostra realtà territoriale?
“Mi soffermerei soprattutto su due dati. Le donne seguite dai centri antiviolenza del brindisino presentano in prevalenza un livello di istruzione medio-basso e oltre un terzo non possiede reddito proprio. Infatti, il 26,4% è non occupata e il 10,7% è casalinga, pari al 37,1%; questo dato indica che molto spesso non manca la consapevolezza di stare vivendo una situazione violenta, ma che la dipendenza economica dall’uomo costituisce un ostacolo nel percorso di fuoriuscita dalla violenza. Le donne occupate sono il 30% e le lavoratrici precarie sono il 19%. Questi dati indicano un grave stato di disagio sociale ed economico delle donne nella provincia di Brindisi, che non può che influire sull’esito del percorso di fuoriuscita dalla violenza intrapreso una volta che si accede al cav. C’è però un altro dato importante, se confrontiamo il territorio brindisino con le altre realtà: sempre per quanto riguardo la conclusione del percorso di fuoriuscita, la provincia di Brindisi riporta il dato più alto, rispetto alle altre province, il 23,2% delle donne. Il che significa che i cav svolgono un ruolo fondamentale nella ricostruzione di un nuovo progetto di vita libera dalla violenza. Con tutti i limiti che noi operatrici riscontriamo quotidianamente, i nostri cav funzionano bene e sicuramente meglio rispetto al resto della Puglia. Questo si evince anche dal dato che indica l’accesso delle donne straniere: anche in questo caso, in provincia di Brindisi si registra la percentuale più alta, il 12.6%, quasi il doppio rispetto alle altre province”.
Chi può accedere al centro antiviolenza?
“Vorrei che fosse chiaro che a noi le donne si rivolgono a prescindere dall’aver sporto o dal voler sporgere denuncia. Infatti, lo scorso anno nella provincia di Brindisi ha denunciato soltanto il 46.8% per cento delle donne che hanno chiesto supporto ai centri antiviolenza. Vengono perché si accorgono di vivere una situazione di violenza fisica, psicologica, economica e vogliono capire che opzioni hanno. Oppure vengono perché hanno bisogno di capire se la situazione che vivono è violenta”.
Sta dicendo che qualche volta non hanno gli strumenti culturali ed emotivi per riconoscere di essere vittime di relazioni abusanti?
“Purtroppo sì. Spesso sono donne che a loro volta hanno vissuto l’abuso nella famiglia di origine e tendono a considerare normali alcune dinamiche violente. Ci vuole un po’ perché diventino coscienti che non è normale che il marito si appropri del loro stipendio o le schiaffeggi se escono da sole”.
Quali sono le remore che le donne hanno rispetto alla scelta di denunciare?
“Credo che siano soprattutto due. L’ostacolo più frequente è costituito dalla presenza dei figli, spesso a loro volta vittime di maltrattamenti, che l’uomo utilizza spesso come una leva per far desistere le donne che vogliono liberarsi. Le madri hanno paura di essere allontanate dai figli, ma anche semplicemente paura di far crescere i bambini lontani dal padre. In secondo luogo, da non sottovalutare è anche il fatto che spesso le donne hanno paura di non essere credute. Questo purtroppo accade perché il personale delle forze dell’ordine e della magistratura non sempre è adeguatamente formato a valutare le situazioni di violenza. Nei cav noi aiutiamo le donne ad essere consapevoli della violenza che vivono e, attraverso la somministrazione di questionari ad hoc, facciamo una valutazione del rischio da allegarsi alla denuncia, proprio perché chi riceve l’atto sia al corrente della fascia di rischio in cui quella donna, secondo i nostri criteri, si trova. Il problema è che non sempre le nostre valutazioni vengono condivise”.
Recenti fatti di cronaca, proprio nella nostra provincia, le danno ragione: una donna di Cisternino, vittima di tentato omicidio, con una valutazione del rischio altissima effettuata proprio da un cav e ignorata dalle forze dell’ordine, non ha beneficiato delle misure di protezione più adeguate.
“È così. In quel caso la donna era consapevole del livello di esposizione al rischio, ma chi era tenuto a raccogliere la sua denuncia non ha convalidato la pericolosità rilevata dal cav e la conseguente necessità della messa in protezione. Quella donna è viva per miracolo”.
Per quella che è la sua esperienza, la normativa cosiddetta “Codice Rosso” ha migliorato la tempestività degli interventi, garantendo una maggiore tutela?
“Non c’è Codice Rosso che tenga, se le forze dell’ordine scoraggiano a sporgere denuncia. E di questi atteggiamenti scoraggianti (e mortificanti) noi ne vediamo molti, tanto è vero che spesso le donne ci chiedono di essere accompagnate in Questura o nelle Stazioni dei Carabinieri, perché vogliono qualcuno accanto a loro che insista nel far accettare la denuncia e, eventualmente, sia testimone del rifiuto a verbalizzare le violenze”.
Sulla tempistica che può dire? Il termine di tre giorni entro i quali il pubblico ministero deve ascoltare la donna che denuncia è effettivamente rispettato?
“A mia memoria, rarissime volte. Nonostante la riforma, ancora adesso passano anche molti giorni prima che la donna che denuncia sia ascoltata e che l’ordine di protezione sia adottato. È un problema di sottovalutazione del rischio che dipende dalla mancata formazione: se i magistrati, come i rappresentanti delle forze dell’ordine, non sono adeguatamente preparati a cogliere determinati campanelli di allarme, nessuna norma mai potrà sbloccare la situazione. Anche perché noi, purtroppo, registriamo una recrudescenza delle forme di violenza, un aumento della crudeltà. E, rispetto a questo, non è la norma in sé che ci aiuta, ma soltanto l’educazione al riconoscimento delle avvisaglie che poi possono degenerare”.
Nessuno spiraglio positivo?
“Sì, qualcosa sta cambiando e riguarda le giovanissime: riconoscono la violenza, in tutte le sue manifestazioni, e sono molto veloci nel denunciarla e nel provare a liberarsene. Le cinquantenni che si rivolgono a noi vengono da situazioni di abuso durate per decenni, le donne più giovani – per fortuna – hanno un livello di sopportazione molto basso”.
Il dato degli accessi ai cav è trasversale, oppure è più alto rispetto ad alcune fasce d’età, o a un particolare livello d’istruzione, o alle condizioni reddituali magari?
“Non solo è trasversale per le donne che si rivolgono ai cav, ma anche per i soggetti maltrattanti (che hanno venti come sessant’anni e sono operai come laureati). La differenza la fa l’autonomia economica delle donne, ma soltanto in relazione all’uscita dalla situazione violenta. Sicuramente la donna che non ha una situazione economica stabile ha difficoltà molto maggiori a liberarsi. Ma di violenza è vittima la lavoratrice precaria tanto quanto la professionista”.
Esistono delle forme di sostegno economico per le donne che abbiano iniziato un percorso di fuoriuscita.
“Sì, esistono, ma sono insufficienti. Non soltanto dal punto di vista dell’ammontare degli aiuti, che spesso non coprono nemmeno il canone di locazione dell’abitazione, ma anche dal punto di vista della velocità della disponibilità. A volte ci sono iter burocratici molto lunghi, oppure bisogna attendere che si aprano le linee di finanziamento e, nel frattempo ,la donna resta priva dei mezzi adeguati per vivere”.
L’omicidio di Giulia Cecchettin sembra aver aperto nell’opinione pubblica un dibattito mai così acceso: questo femminicidio non è ridotto semplicemente a un caso di cronaca nera, ma è occasione di riflessione sulla cultura patriarcale che permea la società da millenni a questa parte.
“Condivido l’osservazione. E penso che il grande lavoro svolto negli ultimi decenni, dalle intellettuali e dai centri antiviolenza, a qualcosa stia servendo. Anche se mi capita, quando accendo la televisione, di vedere che in alcune trasmissioni a parlare di femminicidio vengono invitati soltanto uomini. Le uniche donne presenti sono psicologhe, cioè una categoria che guarda esclusivamente all’aspetto relazionale dei sue soggetti coinvolti. Ma la dinamica della violenza di genere è molto più complessa, non si può ridurre tutto alle responsabilità individuali, bisogna indagare il fenomeno a livello sociale e culturale”.
Agendo in che modo?
“Continuando a fare quello che facciamo e abbiamo fatto. A furia di dirla, la parola patriarcato è entrata nel dibattito pubblico e comincia ad essere analizzata in tutti i suoi effetti. E le dico anche che, secondo me, la morte di Giulia Cecchettin sarà una specie di spartiacque, come ai suoi tempi lo fu la battaglia di Franca Viola, il cui coraggio pose le basi per eliminazione del matrimonio riparatore. Mi auguro che la morte di questa ragazza diventi un momento di accelerazione sulla consapevolezza dei danni dell’impostazione patriarcale della società. Il femminicidio è il culmine di un meccanismo che si manifesta in moltissimi altri modi. L’attenzione sulla relazione che Giulia viveva con il suo ex può aiutare tutti a focalizzarlo”.
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