Clan Lamendola: chiesti 300 anni di carcere per il nipote del boss e la sua “new generation”

Di Marina Poci per il numero 353 de Il7 Magazine
Dalla richiesta più severa, quella a vent’anni, per il presunto capoclan Gianluca Lamendola, a quella più lieve, un anno e quattro mesi, per Pietro Aprile: il 21 maggio, presso l’aula bunker del carcere leccese di Borgo San Nicola, è stata la giornata in cui la sostituta della Direzione Distrettuale Antimafia Carmen Ruggiero e il procuratore aggiunto Guglielmo Cataldi (anche procuratore capo facente funzione) hanno quantificato in oltre trecento anni le pene di cui, secondo la tesi della Procura, sarebbero meritevoli i trenta imputati del procedimento penale contro il clan Lamendola-Cantanna che hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato (altri sei sono stati rinviati a giudizio, mentre per il 34enne sanvitese Adriano De Iaco è stato disposto lo stralcio, in quanto impossibilitato a comparire per motivi di salute).
Davanti al Giudice dell’udienza preliminare Alcide Maritati, Ruggiero e Cataldi hanno snocciolato nomi e numeri dei presunti affiliati alla “new generation”, quella costola della Sacra Corona Unita di derivazione mesagnese, attiva in particolar modo nel territorio di San Vito dei Normanni, che è stata smantellata il 18 luglio scorso dai Carabinieri del NORM con decine di arresti e definitivamente decapitata il 28 novembre, quando, in un appartamento di uno stabile di Correggio, provincia di Reggio Emilia, in una complessa operazione a cui hanno preso parte i Carabinieri del Comando Provinciale di Brindisi, quelli della Compagnia di San Vito dei Normanni e i loro colleghi del Comando Provinciale del capoluogo emiliano, è stato catturato Gianluca Lamendola, 34 anni, nipote – in quanto figlio della figlia Ivana – dello storico boss ultrasettantenne della SCU messapica Carlo Cantanna, che sta scontando l’ergastolo in regime di 41 bis (cosiddetto “carcere duro”) per l’omicidio di Tommaso Marseglia, capo riconosciuto del racket delle estorsioni nel territorio sanvitese.
Gianluca Lamendola è ritenuto dalla DDA salentina e dalla Giudice per le indagini preliminari Maria Francesca Mariano, che ne ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il vertice assoluto del clan. Ruolo che interpreterebbe, stando alle ricostruzioni della Procura, con l’habitus del boss d’altri tempi ereditato dal nonno: sarebbe emerso, infatti, che il giovane sanvitese proibisca il consumo di droga agli affiliati, operi secondo un codice interno di rispetto delle regole che rimanda alle prime fasi della costituzione della SCU e ami manifestare pubblicamente il proprio potere su associati e vittime attraverso l’incisione sulla spalla destra, con un coltello, di una stella, come farebbe un mandriano con i capi di bestiame su cui intende imprimere il marchio che ne battezza la condizione di proprietà privata.
Dopo quella di Gianluca Lamendola, la richiesta più alta è per il padre Cosimo, considerato il gestore della base operativa del clan, una masseria di contrada Mascava, situata in territorio di Brindisi ai confini con quelli di Mesagne, San Vito dei Normanni e Carovigno: per lui, sottrattosi all’arresto al momento dell’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare a firma della Gip Mariano, e poi rintracciato il 25 settembre 2023 in un trullo nelle campagne tra Ostuni e Cisternino, la condanna congrua, secondo la Procura Antimafia, è di diciannove anni e tre mesi. Insieme all’uomo si trovava una donna di origini rumene, che svolgeva le pulizie nel posto, poi denunciata per favoreggiamento.
A parte i due Lamendola e il già citato Aprile, la DDA ha chiesto la condanna di Luca Balducci (tredici anni e tre mesi); Roberto Calò (quattordici anni); Rosario Cantanna (sedici anni); Angelo Potenzo Cardone (sedici anni); Pancrazio Carrino (diciassette anni e quattro mesi); Francesco Ciciriello (due anni); Maurizio D’Apolito (dodici anni); Alessandro Elia (undici anni e quattro mesi); Domenico Fanizza (diciotto anni e sei mesi); Serena Gallo (due anni e sei mesi); Marina Raffaella Guarini (tre anni e tre mesi); Palmiro Pancrazio Lacatena (sei anni); Renato Loprete (quindici anni e dieci mesi); Bryan Maggi (dieci anni e sette mesi); Gionathan Manchisi (dodici anni); Adriano Natale (otto anni e quattro mesi); Domenico Nigro (quattordici anni); Giovanni Nigro (quattordici anni); Giuseppe Prete (sei anni); Angelo Roccamo (undici anni e quattro mesi); Giulio Salamini (undici anni e quattro mesi; Vincenzo Schiavone (sei anni); Davide Taurisano (dieci anni e un mese); Francesco Turrisi (dieci anni e sette mesi); Domenico Urgese (tre anni e tre mesi); Noel Vergine (tredici anni e sei mesi).
Le richieste, così come formulate, sono già calcolate al netto dello sconto di pena di un terzo applicato in ragione della scelta del rito premiale, avendo optato, tali trenta imputati, per il giudizio abbreviato. Gli imputati rispondono – a vario titolo – di associazione per delinquere di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, tentato omicidio, detenzione e porto illegale di armi da fuoco e da guerra, violenza privata, lesioni personali, estorsione, ricettazione, danneggiamento seguito da incendio e autoriciclaggio, tutti aggravati dal metodo mafioso, produzione, coltivazione, spaccio e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Tutti reati a cui Carmen Ruggiero ha fatto riferimento nelle sue richieste di pena, offrendo un quadro chiaro e dettagliato della forza di intimidazione che il clan era in grado di esercitare sul territorio (il cui controllo acquisiva con l’utilizzo di metodi violenti e armi, determinando la condizione di assoggettamento e omertà propria delle associazioni di tipo mafioso). L’inchiesta della DDA era partita dal tentato omicidio di un sorvegliato speciale avvenuto il 5 luglio del 2020 a Latiano, indagando sul quale attraverso intercettazioni di conversazioni e comunicazioni telefoniche, pedinamenti, osservazioni e ricognizioni aeree, è emerso che l’agguato era da inquadrarsi nelle dinamiche relative al tentativo di espansione e affermazione del clan capeggiato da Gianluca Lamendola oltre i confini del territorio sanvitese.
Una menzione particolare merita, nell’indagine, la posizione di Pancrazio Carrino, il quale mesi fa, simulando il pentimento, chiese di essere interrogato dalla sostituta procuratrice Ruggiero per poterla aggredire con un coltello che custodiva in cella. Carrino, che in questo procedimento risponde di associazione di tipo mafioso, tentato omicidio, violenza privata, spaccio e associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, è indagato a Potenza per le minacce di morte a seguito delle quali è stata disposta la scorta per la pm Ruggiero e la gip Maria Francesca Mariano (minacce ammesse e raccontate nei dettagli). Risale a pochi giorni addietro la lettera nella quale ha rivolto pubbliche scuse alle magistrate, giustificando le intimidazioni con la sfiducia nutrita verso il sistema a causa di un’accusa, da lui ritenuta ingiusta, di violenza sessuale citata nell’ordinanza di custodia cautelare della Mariano (violenza che avrebbe perpetrato contro la sua ex compagna, ma che la donna, in fase di testimonianza, ha recisamente negato). Sfumato il patteggiamento (otto mesi da convertire in lavori di pubblica utilità) per la resistenza della Procura, Carrino ha forse pensato di migliorare la sua posizione prendendo le distanze dagli episodi intimidatori e spiegandone la genesi.
La prossima udienza dell’abbreviato è fissata per il 18 giugno, quando prenderanno la parola i difensori degli imputati, mentre per i sei imputati che hanno optato per il rito ordinario, il processo prosegue presso il Tribunale di Brindisi.
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