
L’editoriale del direttore Gianmarco Di Napoli per il numero 381 de Il7 Magazine
Il processo per gli omicidi di Salvatore Cairo e Sergio Spada, i due imprenditori di casalinghi barbaramente uccisi più di vent’anni fa, è probabilmente il più importante mai celebrato davanti alla Corte d’Assise Brindisi. E questo non per la gravità dei delitti, perché di storie cruente e di innocenti ammazzati per motivi insulsi le cronache degli ultimi decenni sono purtroppo piene, ma per una serie di vicende che si sono intrecciate prima intorno al contesto in cui i due omicidi sono collocati temporalmente (a cavallo dell’inizio del nuovo millennio), poi per la tipologia di indagini che sono state effettuate, riannodando i fili di un’inchiesta svolta più di vent’anni prima, con gli identici investigatori di allora. E infine per lo sviluppo che la storia ha subito nel corso del processo, laddove con una serie di colpi di scena e grazie a una clamorosa trasferta dell’intera Corte d’Assise davanti a un pozzo nelle campagne alla periferia di Brindisi, la vicenda giudiziaria ha subìto imprevedibili e «spettacolari» scossoni che in qualche maniera ne hanno ridisegnato i contorni.
Quello contro i fratelli Cosimo ed Enrico Morleo è un processo che va al di là della sola vicenda penale perché racconta un momento unico e irripetibile nella storia economica brindisina. Quello in cui la città era la capitale italiana di due attività profondamente diverse: il contrabbando di sigarette (tanto che era universalmente nota come “Marlboro City”) e la vendita porta a porta di pentole e corredi, il fenomeno dei cosiddetti “padellari”. E il processo racconta proprio la contaminazione di quest’ultima attività da parte di chi intendeva investire i miliardi (di lire) incassati con la prima. Determinandone la fine. Non sarebbe azzardato dire che il periodo d’oro dei “padellari” è terminato quando i grandi contrabbandieri hanno deciso di utilizzare quell’attività commerciale lecita per riciciclare. Allo stesso modo con cui il contrabbando di sigarette è morto quando la Sacra corona unita ha cercato di appropriarsene determinandone la reazione dello Stato e l’offensiva decisiva dell’Operazione Primavera.
Per due decenni, negli anni Ottanta e Novanta, il commercio di batterie di pentole e di corredi per la casa, a Brindisi, aveva fatto la fortuna di centinaia di persone. In cima alla piramide c’erano gli imprenditori che acquistavano all’ingrosso, spesso all’estero, la merce (e Sergio Spada era il migliore di tutti) che poi veniva proposta porta a porta dai venditori, i quali battevano non solo le città, ma anche le case di campagna, spingendosi fino alla Basilicata, alla Calabria e alla Campania. Vendevano padelle, pentole, ma anche corredi che le famiglie acquistavano per le figlie da maritare: i clienti pagavano i contanti oppure firmando cambiali. Un circuito miliardario interrotto non tanto dall’omicidio di Salvatore Cairo quanto da quello di Sergio Spada. Perché quando il suo corpo fu ritrovato senza vita si capì che, chiunque fosse stato, vendere padelle significava rischiare di morire. È un processo che va al di là della vicenda penale che racconta perché la sua genesi sembra la trama di un film in cui gli sceneggiatori hanno abbondato di fantasia. È infatti assolutamente straordinario e unico che, a distanza di oltre vent’anni dai fatti, si ritrovino a gestire le indagini lo stesso magistrato e gli stessi investigatori dell’epoca, ognuno dei quali aveva nel frattempo proseguito la carriera altrove.
Il sostituto procuratore Milto De Nozza, all’epoca a Brindisi, è un magistrato della DDA di Lecce con competenze su Taranto. Vincenzo Zingaro, in quegli anni vicecapo della Squadra mobile a Brindisi, era dirigente presso la questura di Matera. E gli ispettori lavoravano ormai in altri uffici. Ma il caso vuole che un aspirante collaboratore di giustizia chieda di parlare proprio con De Nozza, ignorando assolutamente che si era occupato degli omicidi dei quali intende rivelare i presunti autori. E De Nozza ottiene dalla DDA di poter tornare a occuparsi di quei delitti e addirittura di ricostruire il vecchio team investigativo. Non era mai accaduto che un “cold case” a Brindisi approdasse a un processo e ancor di più che a imbastirlo ci fossero le stesse persone che avevano condotto le prime indagini.
A fornire una ulteriore patina di unicità a un processo che resterà nella storia giudiziaria brindisina è stata la scelta del presidente della Corte d’Assise, Maurizio Saso, nel momento in cui uno degli imputati – nel corso di un’udienza – si è detto disposto a guidare gli investigatori sino all’imboccatura del pozzo in cui aveva gettato i resti di Salvatore Cairo (fino a quel momento nel processo si ipotizzava la sua morte ma non si era trovata traccia del cadavere), ha deciso di spostare fisicamente la Corte d’Assise prima nell’azienda della zona industriale in cui l’imprenditore fu ammazzato e fatto a pezzi, e poi sino al pozzo in un casolare sperduto delle campagne alla periferia della città in cui i resti sono stati effettivamente trovati.
Il presidente della Corte d’assise avrebbe potuto delegare il pubblico ministero e la polizia giudiziaria a effettuare al sopralluogo e invece ha ritenuto che fosse parte integrante del processo. I pulmini con i giudici popolari e quelli togati dietro il furgone della polizia penitenziaria sui cui si trovava il detenuto che indicava la strada, l’interrogatorio nel luogo in cui il corpo di Cairo fu distrutto e soprattutto quello davanti all’imboccatura del pozzo in cui i resti vennero gettati, gestito direttamente dal presidente Saso, alla presenza della Corte d’Assise, dei cancellieri e dei familiari dei due imprenditori uccisi, resteranno momenti probabilmente irripetibili nella storia giudiziaria di Brindisi.
E questo a prescindere da quale sentenza sarà emessa dai giudici martedì prossimo.
(nell’immagine, il presidente della Corte d’Assise, Maurizio Saso, con uno degli imputati, Enrico Morleo, nell’udienza-sopralluogo)