Da Gino ad Andrea Romano: la storia (e la Squadra mobile) chiudono il cerchio

di Gianmarco di Napoli

C’è un filo sottile, una sorta di storica chiusura del cerchio, che lega l’Operazione che ieri mattina ha portato la Squadra mobile di Brindisi a sgominare quello che viene definito il clan “Romano-Coffa”. Andrea Romano, il boss di questo gruppo che spacciava droga e taglieggiava i commercianti, è il figlio di Gino, classe 1958, soprannominato Ramarro.
Costui era un malvivente della vecchia guardia che tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta sopravvisse (tra i pochi) alla mattanza con cui la Sacra corona eliminò decine di suoi ingombranti compagni di mala. Si disse (ma non ci fu mai certezza, ovviamente) che un killer armato di mitraglietta fosse entrato nella sua casa al mare e che l’arma si fosse miracolosamente inceppata, circostanza che spinse Ramarro a lasciare prudenzialmente Brindisi per lungo tempo.

Ma a metà degli anni Novanta, quando la città era scossa da una offensiva criminale frontale, con attentati dinamitardi quasi quotidiani a esercizi commerciali, Romano venne arrestato dalla Squadra mobile perché trovato in possesso di una mitraglietta, di una bomba e di una tanica di benzina. In realtà si scoprì successivamente, grazie alle coraggiose rilevazioni dell’ispettore Francesco Poci, che Romano era stato prelevato in mutande e picchiato a sangue dagli agenti e che l’arma, l’ordigno e la tanica di benzina gli erano stati collocati strumentalmente. La vicenda finì in un processo, tristemente famoso, in cui mezza questura fu accusata anche dell’omicidio dello scafista Vito Ferrarese.
Quella notte in cui la polizia piombò a casa sua portandosi via il padre seminudo accusandolo di aver compiuto un attentato che non aveva commesso, Andrea aveva nove anni.

Non ne passarono troppi che il ragazzino fece parlare di sé. Ne aveva 13 o 14 quando cominciò a compiere rapine nei negozi, poi iniziò una scalata “sociale” nei ranghi della criminalità organizzata, forte anche del suo pedigree e di quel padre della vecchia guardia che non si era piegato alla giustizia, rifiutando sempre qualsiasi forma di collaborazione.

Il passo definitivo furono le nozze con Angela, rampolla della famiglia Coffa che a Brindisi, da almeno due generazioni, orbita nel traffico di droga, dopo la fine del contrabbando di sigarette di cui fu antesignana. Come avveniva un tempo nelle dinastie aristocratiche, i cui matrimoni spesso consentivano di alimentare i rispettivi interessi e di moltiplicare il potere intimdatorio, il clan “Romano-Coffa” iniziò ad assumere il controllo della città, inglobando (apprendiamo dagli arresti di ieri) persino personaggi storici del contrabbando come Quintino Trane, un tempo caposquadra contrabbandiero.

L’epilogo è stato diverso da quello che si aspettavano. Andrea, al contrario del padre, ha scelto la strada di parlare, intraprendere un nuovo percorso, chiudere un capitolo della vita. Lo ha fatto proprio con la Squadra mobile di quella stessa Questura in cui, faticosamente dopo gli scandali e gli arresti che la decimarono a metà degli anni Novanta, è stata ricostruita un’immagine di lealtà, rigore e rispetto delle norme. In cui mai più un uomo, seppure pregiudicato, può essere portato via in mutande, umiliato davanti alla famiglia e accusato di qualcosa che non ha commesso. Ed è la chiusura di un cerchio.
(Nelle foto, da sinistra, Gino e Andrea Romano)