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Detenuto mesagnese di 265 kg muore nel carcere di Torino… e un altro rischia la stessa fine

Di Marina Poci per il numero 424 de Il7 Magazine
Una condanna per truffe che si è tradotta in una condanna a morte: un detenuto diabetico grande obeso, il 51enne mesagnese Francesco De Leo, che avrebbe dovuto restare in carcere sino al 2040, ha perso la vita nella tarda mattinata di lunedì 21 ottobre nella cella del penitenziario torinese Lorusso e Cotugno in cui era stato trasferito appena dieci giorni fa dal centro clinico del carcere Marassi di Genova.
A trovare l’uomo sono stati alcuni agenti della Polizia Penitenziaria, che hanno immediatamente allertato il 118, i cui sanitari, purtroppo, hanno soltanto potuto constatare il decesso. Sul caso la Procura della Repubblica di Torino ha aperto un’inchiesta per ricostruire con esattezza tempistica e dinamica della tragedia, disponendo che sulla salma sia svolta l’autopsia per determinare le cause della morte.
Francesco De Leo, 265 chili e una storia detentiva travagliata, era stato arrestato nel 2021 e aveva iniziato a scontare la condanna nel carcere di Lecce. Col passare degli anni, il diabete gli aveva provocato la perdita di una gamba (per spostarsi utilizzava una sedia a rotelle elettrica), mentre l’obesità era diventata una condizione cronica e invalidante. Le sue condizioni di salute avevano convinto il Tribunale di Sorveglianza a concedergli la detenzione domiciliare a Cuneo, ospitato nell’abitazione del fratello. Una convivenza che si era rilevata difficile e si era conclusa con il trasferimento in una residenza socio-assistenziale di Bra.
Da agosto scorso, tuttavia, De Leo sarebbe dovuto rientrare in carcere, in quanto, secondo quanto emerso, avrebbe tenuto “comportamenti inconciliabili” con la permanenza nella struttura che lo aveva accolto. Poiché la casa circondariale di Cuneo non disponeva di spazi adeguati per accogliere una persona nelle sue condizioni fisiche, l’uomo era stato preso in carico dal Pronto Soccorso dell’ospedale Santa Croce, in cui era rimasto per oltre un mese, piantonato giorno e notte dagli agenti di Polizia Penitenziaria in una stanza della Medicina d’Urgenza. Da qui il trasferimento nel carcere di Marassi, durato appena dieci giorni, e infine l’arrivo a Torino, ultimo tratto di un percorso di marginalità e “diaspora carceraria”, come l’ha definito il suo avvocato, Luca Puce, il quale da Lecce continuava a seguirne le sorti, che ne ha determinato il destino tragico: in quella cella appositamente costruita per le sue esigenze, dove la sua vita si era ridotta a restare confinato in un letto dal materasso sottilissimo, assistito per ogni esigenza dagli altri detenuti, la vita di Francesco De Leo, che nell’impossibilità di recarsi in sala colloqui parlava con i famigliari soltanto in videochiamata, si è bruscamente interrotta.
L’accaduto ha suscitato profondo sdegno, su tutto il territorio nazionale, di Camere Penali, Garanti per le persone private della libertà personale e associazioni per i diritti dei detenuti, che hanno duramente stigmatizzato l’incapacità del sistema penitenziario di rendere la pena effettivamente rispondente ai principi costituzionali di rieducazione, territorialità e rispetto per la personalità morale del condannato.
Al netto dell’accertamento autoptico, non ancora svolto, l’ipotesi più probabile è che la causa della morte sia un infarto, dovuto al progressivo affaticamento cardiocircolatorio provocato dal diabete e forse aggravatosi negli ultimi mesi, in cui De Leo, in condizioni sempre più precarie, è stato “spostato” come fosse un pacco da un luogo all’altro.
“Ero a conoscenza del caso di Francesco De Leo, perché anche io assisto una persona con gli stessi problemi di salute, che attualmente dal carcere di Torino è stata trasferita in quello di Bari. È stata una collega torinese a segnalarmi la sua situazione, proprio per le analogie che presentava con il caso di cui mi occupo. Sono purtroppo costretta a dire che si tratta di una morte annunciata e che, nonostante l’impegno di noi avvocati, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a causa della mancanza di strutture adeguate, non riesce a risolvere il problema dei detenuti le cui patologie sono incompatibili con il regime carcerario”, dichiara l’avvocata Cinzia Cavallo, referente dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Brindisi.
“Nelle stesse condizioni di De Leo si trova il mio cliente”, prosegue Cavallo, “È obeso e diabetico, con problemi cardiologici e respiratori. Dopo essere stato detenuto a Torino e Asti, sono riuscita a farlo trasferire nel carcere di Bari, quanto meno perché sia più vicino alla famiglia. Ma nemmeno questa soluzione può considerarsi idonea, anche perché l’impossibilità di gestire le sue patologie è stata segnalata anche dalle direzioni sanitarie degli istituti che lo hanno ospitato. Basti pensare che, ogni volta che mi reco a visitarlo, sono costretta a prendere appuntamento nei momenti in cui è libera la sala magistrati, che ha un’apertura più ampia: il mio cliente, infatti, non riesce a entrare nella sala colloqui in cui tutti gli altri detenuti conferiscono con gli avvocati, perché la porta ha un’apertura troppo stretta. E pensi che viene sottoposto alle visite mediche nei corridoi, perché spostarsi, anche in sedia a rotelle, gli è diventato impossibile”.
La prossima settimana per l’uomo, sulla cinquantina, è prevista l’udienza presso il Tribunale di Sorveglianza di Bari: sarà dunque una perizia medico-legale a valutare se le condizioni psico-fisiche del detenuto siano tali da rendergli impossibile, o gravemente pregiudizievole, la permanenza in carcere e se l’Infermeria dell’istituto sia eventualmente attrezzata per assisterlo dal punto di vista sanitario. Nel caso in cui l’accertamento peritale stabilisse l’incompatibilità del regime carcerario con lo stato di salute dell’uomo, il Tribunale potrà sospendere l’esecuzione della pena o disporre misure alternative, come la detenzione domiciliare.
Se per il detenuto brindisino è possibile che si intervenga tempestivamente con l’adozione di una decisione in grado di bilanciare l’esigenza punitiva dello Stato con la tutela del fondamentale diritto alla salute, per De Leo questo non è avvenuto: un rammarico che dovrebbe costituire un monito per chiunque creda, in accordo con la Costituzione, che la pena debba privare esclusivamente della libertà personale e non anche della dignità personale.
Tra i primi a pronunciarsi sulla morte del detenuto mesagnese, parlando di “sconfitta per lo Stato di diritto” e “fallimento delle istituzioni”, c’è stata la dottorezza Valentina Farina, garante delle persone private della libertà personale della Provincia di Brindisi, che in un lungo messaggio sui social ha sottolineato le criticità delle condizioni di De Leo e l’ironia beffarda di una sorte che ha voluto la consegna del letto bariatrico, presidio medico necessario ai pazienti grandi obesi, proprio il giorno precedente alla morte del detenuto.
“Questo caso evidenzia quanto ancora sia distante il nostro sistema penitenziario da una reale capacità di personalizzazione della pena e di tutela della salute. Il soggetto era affetto da gravi problematiche sanitarie note da tempo, incompatibili con un regime detentivo ordinario. Eppure, dopo un continuo spostamento tra carceri e strutture sanitarie, era ancora sottoposto a un regime custodiale inidoneo”, ha spiegato Farina.
La dura presa di posizione della garante, oltre alla inadeguatezza delle strutture e alla mancanza di protocolli specifici (“la ‘cella speciale’ ultimata solo pochi giorni prima del decesso è un tentativo tardivo che sa di soluzione d’emergenza più che di programmazione, ha scritto Farina), in un passaggio ha toccato anche l’utilizzo massiccio di agenti penitenziari per il piantonamento di De Leo all’ospedale cuneese Santa Croce. Piantonamento sul quale si era già registrato il disappunto dell’OSAPP, il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, che aveva lamentato l’impiego di “dieci agenti al giorno sottratti al personale già in affanno della casa circondariale cuneese”.
“Non è accettabile supplire alle carenze sanitarie con l’impiego eccessivo di personale di Polizia Penitenziaria”, ha tuonato la garante, evidenziando come il caso del mesagnese imponga una riflessione urgente sulle misure alternative alla detenzione per persone con patologie gravi, sulla necessità di strutture sanitarie penitenziarie realmente operative e su una riforma del sistema sanzionatorio per i reati non violenti. “La pena, per essere giusta, deve poter essere eseguita in condizioni di umanità”, ha concluso la dottoressa Farina, sollevando una questione di fondo sullo scopo e sulla proporzionalità della sanzione penale.