Ex scuola di via Sele, tutti assolti gli occupanti: “Non avevamo una casa, il giudice ha compreso”

Di Marina Poci per il numero 249 de Il7 Magazine
Si presenta con nome e cognome, ma poi sceglie di raccontare la sua storia chiedendoci di utilizzare uno pseudonimo: “Sa’, ho dei figli che hanno già sofferto abbastanza, non voglio causare altro dolore alla mia famiglia”, dice per giustificarsi.
“Jack”, così ha deciso di chiamarsi, è un brindisino di 61 anni che nel giro di una manciata di giorni, dopo circa otto anni vissuti nella precarietà, ha ricevuto due notizie che hanno cambiato il corso della sua vita. La prima è che il 18 aprile la giudice monocratica del Tribunale di Brindisi Raffaella Lopane lo ha assolto, insieme a più di altri venti imputati, dall’accusa di avere occupato abusivamente la ex scuola di via Sele, al quartiere Perrino, riconoscendone, al momento in cui vi si sono insediati, lo stato di bisogno determinato dall’impossibilità di reperire un’abitazione. La seconda bella notizia è che i Servizi Sociali del Comune di Brindisi gli hanno finalmente assegnato un alloggio di edilizia popolare, una piccola casa al quartiere Sant’Angelo nella quale si augura di ricostruirsi e ricostruire i legami personali sfilacciati dalla sua condizione abitativa problematica e incerta.
Non hanno forzato le serrature e non hanno scavalcato i cancelli, lui e gli altri disperati che in quell’immobile del quartiere Perrino hanno trovato un tetto: questo Jack lo ribadisce espressamente, respingendo con forza la narrazione, anche giuridica, di quella presa di possesso come un atto violento e clandestino, frutto dell’attitudine a vivere di espedienti e nell’irregolarità.
“In quella scuola ci siamo entrati autorizzati”, racconta, “il sindaco Consales ha inviato i vigili urbani e i vigili del fuoco per verificare che l’immobile fosse agibile. Dopo una serie di accertamenti, è stato escluso il pericolo di crollo, per questo abbiamo potuto viverci. Senza quelle stanze, con tutte le loro scomodità, molti di noi sarebbero morti di freddo o di caldo per strada, sarebbero stati costretti a dormire in macchina. È stata la nostra casa per anni, ma non è passato giorno che almeno una delle persone che ci vivevano non sia andata in Municipio per chiedere di assegnarci una casa vera. Certo, è possibile che qualcuno ne abbia approfittato e sicuramente non tutti quelli che ci hanno vissuto erano persone perbene, ma la maggior parte di chi ha abitato in quelle aule scolastiche si trovava lì perché non aveva nessun’altra alternativa”.
Motivazione che ha retto al vaglio del processo penale, tanto che la formula assolutoria con la quale la giudice Lopane ha scagionato gli occupanti (i quali rispondevano di invasione di edificio al fine di occuparlo e di deturpamento e imbrattamento di cose altrui) è stata “Il fatto non costituisce reato”: la magistrata ha riconosciuto che l’immobile è stato adibito dagli imputati a propria abitazione in considerazione dello “stato di necessità” determinato dal loro particolare bisogno economico e abitativo, cioè dall’impossibilità di trovare un’abitazione. La causa di giustificazione applicata nella fattispecie è contenuta nell’articolo 54 del codice penale, che recita che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”.
Nella scuola di via Sele c’erano uomini che vivevano da soli, interi nuclei familiari, persino una donna che nell’immobile fatiscente ha affrontato la gravidanza e i primi anni di vita della sua bambina. Jack ci è finito quando, nel corso di una turbolenta separazione, il giudice ha assegnato la casa coniugale, nella quale aveva vissuto sino a quel momento con la famiglia, alla ex moglie, presso cui erano stati collocati i figli minori: “Ho due figli dal precedente matrimonio, già grandi, che vivono fuori e con i quali ho un bellissimo rapporto. I figli delle mie seconde nozze, invece, che adesso sono adolescenti, non li vedo da anni, anche se continuo a pagare per il loro mantenimento. All’inizio venivano a trovarmi, poi hanno smesso. Ho fatto quello che ho potuto per rendere vivibile l’ambiente in cui ho scelto di stare, ma naturalmente non si può pensare che fosse adatta a farci stare dei bambini”.
Jack, che attualmente lavora per una società per azioni partecipata dalla Provincia di Brindisi, è un muratore e intonacatore: ha imbiancato la sua aula (una stanza di circa trenta metri quadrati), l’ha arredata con mobili di fortuna (“un sacerdote molto gentile mi ha regalato un armadio”), ha riadattato con nuovi servizi igienici un bagno adiacente all’aula, costruendoci all’interno anche una doccia (“per evitare di usare i servizi in comune”), ha cucinato usando una bombola del gas, ha scaldato l’acqua con uno scaldabagno acquistato, insieme alla televisione, con i pochi soldi a disposizione, durante i mesi più freddi ha contato su una piccola stufa, comunque insufficiente a riscaldare un ambiente così ampio.
Con gli altri occupanti della scuola ha avuto quelli che in una situazione diversa si chiamerebbero formali rapporti di buon vicinato, non ha vissuto la promiscuità degli spazi e il senso di comunità venutisi naturalmente a creare tra gli altri inquilini, e ha limitato i contatti soltanto a quelli strettamente indispensabili: “Salutavo quando entravo e quando uscivo, ma niente di più. Sono sempre stato per i fatti miei, perché la mia situazione familiare era già abbastanza difficile, non avevo bisogno di altre complicazioni. E le complicazioni, con alcune di queste persone, sarebbero sicuramente nate. In tante occasioni è arrivata la Polizia. Per questo io mi chiudevo nella mia stanza ed evitavo di entrare in confidenza”.
Dopo lo sgombero disposto dal Tribunale, alcune persone sono state beneficiarie di alloggi di edilizia popolare da parte del Comune di Brindisi (che nel procedimento penale appena conclusosi non si è costituito parte civile), altri hanno cercato e trovato soluzioni autonome. Altri ancora, come Jack, al tempo dell’amministrazione Rossi (quando è diventato esecutivo il decreto di sgombero), sono stati ospitati nella villa confiscata al contrabbandiere Pino Morleo, in contrada La Rosa, a ridosso della zona industriale di Brindisi.
Jack ha parole di gratitudine per la sua avvocata, Ilaria Baldassarre, che lo ha assistito in un giudizio penale che non smette di definire “ingiusto” (“quando mi ha chiamato per dirmi che eravamo stati tutti assolti era quasi più contenta di me”), per la magistrata che ha emesso la sentenza (“ha avuto coraggio, la sento umanamente vicina”, dice) e per tutti coloro che in questi anni gli sono stati accanto consentendogli di vivere, malgrado le oggettive difficoltà della sua condizione abitativa, con decoro e rispettabilità.
Jack adesso ha una nuova compagna, con la quale non ama parlare del suo passato alla ex scuola di via Sele, non perché se ne vergogni, ma soltanto perché è già proiettato in una nuova fase della sua vita, nella quale intende dimenticare gli ultimi anni e godere pienamente del presente: “Nonostante i miei 61 anni, mi sento ancora nel pieno delle forze. Anzi, mi sento volare. Al Comune di Brindisi stanno preparando la documentazione per l’assegnazione della casa. Quando tutto sarà pronto, prenderò un giorno di ferie e andrò a ritirare le chiavi. Da quel momento comincerà la mia nuova vita”, conclude.
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