Fiume Grande, moria di migliaia di carpe: miasmi infernali nel prezioso paradiso naturalistico

Lo scorso fine settimana si era diffusa la notizia, riportata anche da qualche organo di stampa e sul web, di una moria di pesci alle Saline di Punta della Contessa, anche se, a saper legger bene la notizia e conoscendo i luoghi, è stato subito evidente che si trattava dell’invaso di Fiume Grande, ad un paio di chilometri dai primi laghetti costieri retrodunali delle saline propriamente dette, ma facente, comunque, parte integrale del Parco Naturale Regionale denominato Saline di Punta della Contessa.
Essendo questa zona un po’ la mia seconda casa, la notizia, che parlava di alcune decine di esemplari di carpe (pesce d’acqua dolce introdotto alcuni decenni fa nei bacini dell’invaso), pur destandomi interesse, non sembrava a prima vista, particolarmente inquietante.
Era accaduto che, a seguito di una segnalazione telefonica di una persona allarmata per l’intenso fetore, una pattuglia dei carabinieri forestali si era portata sul posto e, secondo le notizie diffuse, in un’ansa dello specchio d’acqua, fra le canne, accertavano la presenza alcune di carcasse galleggianti di pesci morti. Di qui la dovuta segnalazione e l’immediato intervento dei veterinari della ASL e dei tecnici dell’A.R.P.A., l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale.
Informatomi sul luogo preciso del rinvenimento, il sabato pomeriggio, mi sono recato sul posto e, lasciata la macchina sulla Strada per Pandi, nella zona industriale di Brindisi, mi sono addentrato a piedi percorrendo il piccolo sentiero che costeggia il nastro trasportatore del carbone che alimenta la centrale Enel Federico II di Cerano e che gli “scienziati” dell’epoca, non contenti dei danni ambientali già causati con la costruzione delle mega centrali di Brindisi Nord e Brindisi Sud fecero passare proprio lungo l’alveo di Fiume Grande.
Percorsi nemmeno cento metri, il primo impatto visivo è con una vera e propria discarica abusiva a cielo aperto dove, accatastati alla rinfusa, giacciono abbandonati sul terreno, a ridosso di un frondoso arbusto, copertoni di auto, di camion e di trattore, fusti e lattine di oli esausti sacchi vuoti di prodotti chimici per l’agricoltura, plastica varia, tanto per citare quelli più impattanti per l’ambiente, non solo visivamente. Eppure c’è un bel cartello, invero un po’ sbiadito, ma pur sempre leggibile, che ci ricorda che siamo in un parco naturale…
Vado avanti sforzandomi di guardare verso destra dove inizia il fitto canneto dietro al quale si nascondono gli specchi d’acqua, collegati tra loro che formano, nel loro insieme, l’Invaso di Fiume Grande che, in base alla legge Regionale n°28 del 23 dicembre 2002, rientra nella perimetrazione del Parco Naturale Regionale “Saline di Punta della Contessa”.
Non mi sforzo più di tanto di guardare attraverso le Cannucce di palude, in quanto so che poco più avanti, in un tratto in cui il sentiero è più alto rispetto all’invaso, vi è un primo agevole affaccio su questo paradiso in terra.
Mi aspetto di poter ammirare qualche anatra e le immancabili folaghe e gallinelle d’acqua, oltre che gli aironi che ormai qui sono di casa sia in ogni stagione ma, dal momento che la natura non la finirà mai di stupirmi e stupirci, ecco che proprio davanti all’isolotto posto in mezzo al bacino più grande, svetta fra gli uccelli acquatici e limicoli, uno splendido quanto solitario Fenicottero rosa che sembra aspettarmi per mettersi in posa e farsi ammirare in tutta la sua imperiosa bellezza.
Sinceramente, pur conoscendo bene la colonia di un centinaio di esemplari che da alcuni anni frequenta i laghetti costieri delle saline propriamente dette, non mi era mai capitato di vedere un esemplare, per di più isolato, a Fiume Grande. Sicuramente presto si ricongiungerà al resto della compagnia.
Percorso il sentiero per un centinaio di metri ancora, svolto a destra e mi dirigo con decisione verso la diga del Consorzio A.S.I. che divide questo grande invaso dallo specchio acqueo posto di fronte all’ingresso della Basell, quello più vicino alla foce e che, in parte attraverso un canale in cemento e e in parte attraverso il canneto, sfocia nel porto industriale di Brindisi, a ridosso della Centrale Brindisi Nord, un tempo Edipower ed ora di proprietà della compagnia francese A2A.
Man mano che avanzo, il fetore, spinto nella mia direzione dal vento, si fa sempre più intenso ed insopportabile, tanto che dopo qualche decina di passi rinuncio ad avvicinarmi ulteriormente e mi ripropongo di tornare la mattina successiva, con l’aria più fresca rispetto al primo pomeriggio, oltre che più convenientemente attrezzato, per poter vedere, raccontare e documentare tutto quanto, senza correre il rischio di intossicarmi.
Ritorno a grandi passi sulla cima della diga e mi volto indietro per vedere come si presenta, nel suo insieme, quest’ultimo tratto dell’invaso. Noto che un bel gruppetto di Cormorani – appena ritornati dalle nostre parti per svernare, dopo aver passato l’estate più a nord – è tranquillamente appollaiato su una struttura metallica emergente posta al centro del bacino, mentre delle anatre sono in acqua ed un paio di Aironi cenerini ai margini del canneto, tutti ben distanti, comunque, dalla maleodorante accozzaglia di carcasse di carpe e con il vento che spinge il fetore in altra direzione, esattamente la mia!
Percorro velocemente e con il nauseante odore che mi permane nelle narici, il tratto di strada già dell’andata e mi soffermo a fare qualche scatto al fenicottero mentre uno stormo di Germani reali si è alzato in volo e con la classica formazione a freccia si dirige verso un bacino più interno.
Ricordo che Fiume Grande è uno dei pochi posti dove è ancora presente la Moretta tabaccata, una specie davvero rara, tutelata dalla legge ed inserita nel “libro rosso” degli animali d’Italia a rischio di estinzione
La mattina successiva, domenica, di buon’ora torno sul luogo del “delitto”, portando con me una mascherina non del tipo monouso anti-covid, simile alla carta igienica doppio strato, ma una più professionale con filtro in carbone attivo e da me spruzzata di essenza di lavanda per cercare di attutire il cattivo odore.
Il tempo di dirigermi verso il canneto e scorgo due individui, di cui uno armato di fucile e l’altro di pietre in evidente tenuta da caccia e mi ricordo che da questa domenica è riaperta la stagione venatoria. Peccato, per questi signori, che in questa zona, ricompresa nella perimetrazione del parco regionale, è assolutamente interdetta la caccia, sicchè mi faccio coraggio ed intervengo giusto un attimo prima che uno dei due tizi scagli il sasso nel fitto del canneto, presumibilmente per stanare la selvaggina ivi nascosta a beneficio del compare armato; spiego loro che si trovano all’interno del parco in cui vige il divieto assoluto di caccia, indico loro il cartello sbiadito e gli comunico con voce ferma che devono togliere immediatamente il disturbo. Da come si sono allontanati in tutta fretta e senza fiatare mi sembra evidente che sapevano benissimo di stare dalla parte del torto e, notando il carniere a tracollo vuoto, sono stato davvero contento di aver evitato che, almeno per questa volta, qualche sciagurato animale vi finisse dentro impallinato.
Ancora qualche passo e, quando sono ancora ad almeno mezzo chilometro dalla diga, comincio a sentire il nauseante tanfo e, almeno per una volta da quando è scoppiata la pandemia, trovo sollievo nell’indossare la mascherina che mi copre naso e bocca.
Man mano che mi avvicino, però, comincio a temere che possa essere il mio stomaco a non reggere ai miasmi infernali che quella poltiglia di pesce emanava ancor più del giorno prima. Mi faccio forza, trattengo il fiato più che posso, utilizzando solo la bocca e non più il naso per respirare e mi avvicino per documentare con un video e qualche scatto l’immane disastro che si è presentato davanti ai miei occhi.
Non sono decine, come avevano riportato i media in un primo momento, e nemmeno centinaia le grosse carpe, della lunghezza di almeno una trentina di centimetri l’una, che galleggiano in stato di decomposizione nella grande ansa di questo specchio acqua, spinte dal vento da nord ai margini del canneto; sono molte di più, migliaia e migliaia, cioè tonnellate di carcasse putride da rimuovere e smaltire al più presto se si vuole evitare che dalla putrefazione si vengano a sviluppare il botulino ed altre tossine che ammorberebbero ed avvelenerebbero l’intero invaso, rendendolo mortifero per l’avifauna che ospita ed inospitale per le specie di passaggio lungo le rotte migratorie, ma anche per le attività umane che si svolgono in quei pressi.
Fiume Grande è sempre stato indicato come un fantastico esempio di resistenza della Natura agli attacchi dell’uomo, circondato, come è, dalla Zona Industriale. La sua foce, che sbuca fra la Centrale Brindisi Nord e Capobianco, è costantemente sotto assedio da parte di chi vorrebbe cementificare ancora e la vorrebbe addirittura “tombare” con una enorme cassa di colmata, come se Brindisi non avesse già pagato il suo pesante tributo alla industrializzazione selvaggia della seconda metà del secolo scorso, per metterci ora anche la speculazione cieca e sorda che caratterizza i primi decenni del terzo millennio.
Le modifiche apportate dall’uomo al corso naturale del fiume, le strozzature, gli sbarramenti e le chiusure, sono concause certe, in uno al grande caldo che ha caratterizzato la fine dello scorso mese di agosto, quando le temperature hanno sfiorato i 40° – il che potrebbe aver permesso la proliferazione incontrollata di alghe che, a loro volta, hanno provocato un drastico calo nelle concentrazioni di ossigeno e quindi un habitat insostenibile per le forme di vita più grandi – della morte per asfissia di questi pesci introdotti artificialmente dall’uomo alcuni decenni fa e moltiplicatisi a dismisura con la quasi scomparsa di ogni specie ittica autoctona.
Il pericolo ora è che, se non si dovessero rimuovere al più presto le carcasse putride, si potrebbe verificare, come prima accennato, un vero e proprio disastro ecologico. Spero che anche le quattro righe che scrivo su questa rivista, in uno ai ben più autorevoli interventi di A.R.P.A. ed ASL e di chi altro di ragione, possano servire a sollecitare un intervento di bonifica e smaltimento non più differibile.
Dal momento che non voglio far ritorno a casa con il magone che mi sento addosso, più forte, addirittura, del fetore che ho respirato, mi porto nei pressi della foce del fiume per respirare a pieni polmoni, l’aria frizzante del mare e mi rassereno guardando, a debita distanza, un bel gruppetto di limicoli – cioè uccelli acquatici che prediligono frequentare luoghi fangosi e paludosi come sono, appunto i margini delle foci dei fiumi – in massima parte simpatici Voltapietre (Arenaria Interpres), così chiamati per la loro abitudine di rovesciare i sassi e cibarsi di vermi crostacei e molluschi che vengono, così, a scoperchiare. Il fatto che continuino a fare amabilmente ciò che stavano facendo prima del mio arrivo mi dà la conferma di aver rispettato la giusta distanza per non essere considerato un aggressore o un rompiscatole, altrimenti ci mettono un attimo per involarsi tutti insieme ed allontanarsi, quanto basta, dal disturbatore di turno.
Mentre torno all’auto, parcheggiata nei pressi della vecchia costruzione militare abbandonata sotto la Centrale Brindisi nord, arrivano in volo dall’invaso di Fiume Grande, per posizionarsi sugli scogli nei pressi della foce, il gruppetto di Cormorani che usa passare la notte nella quiete del canneto, prima di portarsi, al mattino, sul mare nelle zone di pesca, guardo l’orologio al polso e mi rendo conto, con sorpresa, che non sono nemmeno le 9,00, ma la mia giornata è stata già molto intensa.