Guastella: “Un monumento all’estetica del rottame”

di MASSIMO GUASTELLA*

Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti: uomini…” ci ha cominciato a raccontare la sua storia dell’arte Sir Ernst Hans Gombrich. E Raffaele Leone era innanzitutto un uomo, prestato all’arte, che sapeva di vivere in un mondo dettato da comportamenti rigidi e chiusi; nel bene e nel male, l’arte per lui ha rappresentato, non senza difficoltà, la licenza dagli schemi obbligati del vivere sociale, un modo per vincere la sofferenza dell’esistenza.
Chi è transitato lungo la centralissima via Lecce a San Pietro Vernotico, non può non aver notato quella incomprensibile abitazione a un piano, semi occultata in facciata e sormontata sul tetto da uno smisurato ammasso di rottami. Un riciclaggio continuo e costante di rifiuti indifferenziati, lasciati sui bordi delle strade, in città, in campagna; un’inconcepibile espansione di avanzi del consumismo, nella logica dello spreco proprio dell’attuale civiltà occidentale, tramutato in prodotto artistico. Nessuno si può permettere di portare critiche etiche e pregiudizi discriminanti, su chi quegli scarti li ha raccolti (e sottolineo non gettati) ovunque e in qualsiasi ora del giorno, per renderli consapevolmente e permanentemente visibili ai fruitori, che tutto l’anno, li osservavano: chi incuriosito, chi turbato, chi disorientato, chi con occhio più educato attratto da una mescolanza poco casuale e sufficientemente estetica.
Quasi a rievocare le linee tracciate dalla storia dell’arte dal secondo decennio del XX secolo, dai rendez-vous duchampiani con object trouvé al Merzbau di Kurt Schwitters, dalle combinazioni neodadaiste agli accumuli dei nouveaux réalistes, quel riuso e assemblaggio di materiali è divenuto una scultura in progress, che da qualche giorno è stata terminata per sempre perché si è conclusa la vita terrena del suo autore.
Nasce autodidatta nell’immediato dopoguerra Raffaele Leone, a San Pietro Vernotico. La sua fu una formazione alberghiera e restò taciuta, ancora per qualche tempo, la vena creativa, né naif tantomeno primitivo dunque. Emigrò per lavoro e nei suoi soggiorni in Inghilterra e in Svizzera, solo per citare alcuni paesi delle sue peregrinazioni, accanto alle esperienze di vita devono essersi manifestati i primi bagliori del fare artistico.
Poco o quasi niente è studiato su lui ad oggi, personalità marginale delle periferie culturali; ciononostante un primissimo orientamento critico “a caldo” consente di osservare che sin dagli inizi della sua attività si è rivolto a forme di espressionismo, traendo spunti da una di quelle correnti pittoriche più praticate dai giovani artisti nella seconda metà del Novecento, poco inclini alle sperimentazioni linguistiche più avanzate di quel torno d’anni. Almeno sino agli anni Ottanta i generi che trattò in pittura sono tra i più usuali, come il ritratto o il nudo femminile per esempio.
Il trasferimento negli Stati Uniti, il matrimonio con una donna newyorkese ben inserita nei circuiti della Grande Mela, lo portarono a cercar fortuna nel cinema, e con un videoclip si aggiudicò una borsa di studio, ma non era quella la sua strada. Altre suggestioni captate negli ambienti artistici della metropoli americana lo smossero culturalmente ed emotivamente, sino ad assimilare un’arte meno conforme a schemi fissi tradizionali e più aperta ai linguaggi della contemporaneità, allora ancora in voga oltreoceano, rendendolo nei fatti stilisticamente versatile, preso come doveva essere dalle visioni che lo circondavano e coglieva nella nuova realtà.
Non mancò di irrobustire la tecnica e frequentare le lezioni di Robert De Niro Sr, padre della star del cinema, che si era formato con Albers prima e Hofmann poi, orientato all’espressionismo astratto. Non di meno, successivi transiti in Costa Azzurra, invitato dall’amico di una vita, il conterraneo Roberto Conte, lo stimolarono a produrre opere apparentemente surreali, frutto di magnetismi a più facce, latamente miroriani.
Alle sue esposizioni personali in Italia e all’estero si affiancarono presenze in collettive sul territorio salentino, che lo vedevano esporre le sue opere accanto a quelle di Romano Sambati, Renato Centonze, Giuseppe Marzano, Paolo Lunanova, Umberto Palamà, per citare alcuni.
Gradualmente la sua produzione cominciava a spostarsi dall’apparenza del figurativo alle espressioni della formatività, un distacco che lo identificava in una nuova fisionomia, dentro il filone del riutilizzo di materiali “anti-artistici”. In questo senso si possono leggere le indicazioni di Philomene Claude Longo sulla Lainière (la lanaiola), una combinazione di pittura e scultura definita di una “beauté primordiale”; una sorta di Femme -Totem provvista di segni che “invite à une lecture imaginative où n’intervient que la capacité de perception sensible du ‘ lecteur d’images et des symboles’”. Nella rada fortuna critica di Leone, da questa nota di presentazione dell’opera della Longo si può arguire il percorso ultimo dell’artista salentino, anche se un po’, o forse volutamente, grezzo, d’una necessità del dire attraverso una carica concettuale.
Al suo definitivo rientro a San Pietro Vernotico eseguì non solo assemblaggi pitto-plastici, che richiamano le Poubelle di Arman, ma avviò, indubbiamente affascinato dalle numerose visite al Santuario della Pazienza a San Cesario, immaginato da Ezechiele Leandro, l’esecuzione sine die di quella scultura totemica, che nasceva da una raccolta di pietre ammucchiate sul ciglio della strada in un giorno in cui si recava in compagnia d’un amico in direzione Brindisi e che collegava a un evento sismico accaduto in quel periodo.
E così via ogni caotica e formalmente confusa aggregazione di materiali si legava a un accadimento, ne diveniva simbolo, indecifrabile ai più, ma che costituiva quella personale identità esistenziale che nei rifiuti incorporava la visione di sé stesso e la sua dimensione ontologica. Stranezza, follia, accattonaggio, robivecchi nella percezione strapaesana, ma in un ambito allargato allo scenario internazionale dell’arte, lavori simili hanno ben altre considerazioni: “sono un viluppo di simboli: sono rischio e fascinazione, catastrofe annunciata e seduzione, bellezza del brutto e memoria dell’umano”, come su quell’orientamento di ricerca ha scritto Lea Vergine, aggiungendo “talvolta sono il segno di una creatività minacciosa quanto ambigua, giacché l’immondizia non è prevedibile e quindi non la si può eludere”.
Nel principio di accumulazione, solo esteriormente anarchico, Leone ha eretto una sorta di monumento visionario, che richiama l’estetica del rottamato, sintesi dei residui di una società opulenta, esasperata dal consumo sfrenato. Un cantiere faticoso, assiduo, sempre in fieri, quasi un fortino che ne schermasse e acuisse la solitudine e lo proteggesse separandolo dal mondo esterno. Un continuum flusso creativo che si combinava ai tentativi, tormentosi, dell’uomo alla perpetua ricreazione di angosce e allucinazioni, verosimilmente con il fine di esorcizzare l’ostile. Al punto che i pericoli di crolli e persino la difficoltà di accedervi, non costituivano un problema, ché era un’idea transitoria e corruttibile come lo è la vita: effimera. Per Leone “l’arte deve essere rischiosa”, così rispondeva all’amico Tito Ragusa, preoccupato dalla precariata dell’affastellamento. Resta quell’accumulo, nei fatti compulsivo, trasformato in proposizione artistica ambientale, una testimonianza persino sacrale degli scarti dell’umanità.
Mi sentirei di suggerire, alla comunità sanpietrana, di preservarlo e lo vincolerei per interesse culturale, per farne una irripetibile e, a suo modo, unica occasione educativa di diversità e translocalità artistica. Cos’altro sennò?

*Docente Storia dell’arte contemporanea. Metodologia
della ricerca – Università del Salento