“HIV e AIDS: terapie migliori, ma contagi in aumento, anche in provincia di Brindisi”

Di Marina Poci per il numero 377 de Il7 Magazine
La prima volta che sentì parlare di HIV, Salvatore Minniti, direttore dell’unità operativa di Malattie Infettive dell’ospedale Perrino di Brindisi, era poco più di un ragazzo: frequentava la facoltà di Medicina dell’Università di Catania e non aveva ancora nessuna idea che virus e batteri sarebbero stati, da lì a qualche anno, il perno della sua vita professionale. Lesse alcuni articoli giornalistici che riportavano le ultimissime dagli Stati Uniti e mettevano in guardia sulla scoperta di un nuovo virus altamente contagioso, ma pensò, con molta diffidenza, che si trattasse di sensazionalismo da quattro soldi e che la scienza, a breve, avrebbe ridimensionato la notizia. La percezione cambiò quando l’HIV iniziò a diventare un problema anche nazionale e, da giovane specializzando, ne sperimentò sui testi e in corsia tutta la portata, che non esita a definire “devastante”.
Da allora, dai tempi in cui le campagne di informazione programmavano a reti unificate spot in cui le persone a rischio erano riprese in bianco e nero e profilate di un funereo viola, si è sempre speso nella cura, nella prevenzione e nel superamento dei falsi miti e dello stigma sociale che la patologia, sin dalla individuazione del virus, nei primi anni Ottanta, si porta dietro. Un impegno che continua e si rafforza in ragione del suo ruolo di direttore di reparto che, quotidianamente, vive con i pazienti e le loro famiglie la gestione della malattia dalla fase diagnostica a quella terapeutica, registrando – suo malgrado – anche a livello provinciale, un costante aumento di nuovi casi, sul quale ritiene necessario interrogarsi e lavorare.
L’evento “Insieme contro l’HIV e le Infezioni sessualmente trasmissibili”, in programma a Brindisi sabato 30 novembre a partire dalle 8.30 nella sala congressi dell’Autorità Portuale, Minniti lo ha fortemente voluto proprio nel convincimento profondo che la diffusione del virus potrà rientrare ed essere tenuta sotto controllo soltanto debellando le convinzioni errate e i pudori che ne accompagnano la narrazione.
Oltre ai vertici aziendali della ASL e al presidente dell’Ordine dei Medici della Provincia di Brindisi, Arturo Oliva, all’incontro, che si terrà alla vigilia della Giornata Mondiale per la lotta contro l’AIDS, parteciperanno alcune ultime classi delle scuole superiori (anche da remoto) “perché”, spiega, “è sulla corretta informazione che dobbiamo agire. Sono le nuove generazioni che devono superare il pregiudizio che ancora condiziona l’opinione pubblica”.
Sull’informazione Minniti lavora da anni: già mentre frequentava la scuola di specializzazione in Malattie Infettive, collaborava con la LILA (Lega italiana per la lotta contro l’AIDS) facendo attività di volontariato in tutti i luoghi in cui, all’epoca, si pensava di intercettare persone a rischio. “Andavamo nelle discoteche e nei luoghi di ritrovo dei giovani per spiegare in che modo avviene il contagio e sensibilizzare sull’utilizzo del preservativo. All’epoca i tossicodipendenti erano particolarmente vulnerabili, quindi iniziammo anche campagne di “riduzione del danno”, se così si può dire, garantendo siringhe pulite per evitare i rischi dello scambio”, ricorda.
Siamo passati dal bombardamento mediatico dei primi anni Novanta (“Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”), in cui si relegava la possibilità di contrarre il virus al mondo della tossicodipendenza, della omosessualità e della promiscuità sessuale, al quasi silenzio dei decenni successivi: cos’è cambiato?
“Relegare la patologia HIV nell’ambito di categorie di categorie cosiddette a rischio è stato un gravissimo errore, perché gran parte della popolazione che non faceva uso di droghe, aveva un partner fisso e si dichiarava eterosessuale si è sentita esclusa dal rischio di contrarre l’infezione. Io credo che l’HIV vada trattata a tutti gli effetti come un’infezione sessualmente trasmissibile, che quindi si può contrarre attraverso i rapporti, sia omosessuali che eterosessuali. È chiaro che questo inquadramento aumenta a dismisura il numero delle persone potenzialmente esposte, consentendoci di lavorare su una prevenzione migliore. Quello che è accaduto nel corso degli anni è che, mentre le categorie a rischio hanno sviluppato una consapevolezza del pericolo rappresentato da alcuni determinati comportamenti, le categorie ritenute non a rischio hanno vissuto credendosi immuni dal contagio. La crescita dei casi a cui stiamo assistendo è frutto di questo meccanismo”.
Sfatiamo quindi il mito che negli ambulatori HIV dei nostri ospedali si affaccino categorie sociali, economiche e professionali specifiche, o pazienti in determinate fasce d’età.
“Sfatiamolo tranquillamente: l’infezione ci riguarda tutti, persino il personale sanitario che, teoricamente, dovrebbe avere una maggiore consapevolezza sul tema. Riguardo all’età possiamo fare una distinzione, sulla base dell’esperienza degli ultimi anni: se si tratta di omosessuali, la fascia di età degli infetti che noi agganciamo è ristretta in genere ai giovani; viceversa, negli eterosessuali riscontriamo un picco di contagi tra i quaranta e i cinquant’anni. Si tratta di persone che hanno contratto l’infezione anche dieci anni fa e non sono mai state sfiorate dal dubbio di essere positive. Nel frattempo hanno vissuto senza terapia, con la possibilità, non remota, di avere infettato a loro volta i partner. Spesso queste persone, quando cominciano a presentare i sintomi della malattia, non si rivolgono nemmeno all’infettivologo, ma ad altre figure professionali, il dermatologo, l’ematologo, lo pneumologo. Cosa che complica moltissimo le cose anche a noi in fase di cura”.
Come si sta agendo sull’aspetto della prevenzione sul territorio provinciale?
“Ci sono due tipi di prevenzione: quella basata sulla consapevolezza, su cui serve lavorare ancora tantissimo, anche tra gli stessi operatori sanitari che non hanno una formazione specifica in Malattie Infettive. È un dato di fatto sul quale pensiamo di poter incidere e ci adopereremo in questo senso. A questo si affianca il tema della prevenzione farmacologica: oggi come oggi è pacifico che un paziente che assume la terapia antiretrovirale con regolarità non infetta nessuno, quindi può avere anche rapporti sessuali non protetti. Inoltre abbiamo a disposizione la PREP (profilassi pre-esposizione), grazie alla quale soggetti che sono consapevoli di avere comportamenti sessuali particolarmente a rischio, pur non essendo HIV positivi, possono prendere una compressa per prevenire l’infezione.”
I farmaci arrivano a minimizzare il rischio di contagio nei sani e, in caso di positività, a ridurre l’impatto della malattia. Eppure le infezioni crescono.
“La questione è è proprio questa: dal punto di vista scientifico facciamo passi da gigante, avendo a disposizione un armamentario di farmaci che soltanto dieci anni fa era impensabile. Il problema è che l’aumento dei contagi è sostenuto. Anche in provincia, possiamo dire senza essere smentiti che le nuove infezioni aumentano e che la consapevolezza che il virus è tra noi è ancora troppo lontana. È un dato riscontrato: la maggior parte dei nuovi diagnosticati non li identifichiamo in fase precoce, ma quando hanno già i sintomi della malattia, a testimonianza del fatto che non riusciamo a intercettarli subito dopo il contagio”.
Perché la diagnosi avviene così tardivamente? Cosa si trascura nel paziente e cosa il paziente trascura di se stesso, tanto da rivolgersi al medico con ritardo?
“Non dobbiamo dimenticare che l’HIV per i primi anni (anche cinque, sei, sette), una volta contratto, è assolutamente asintomatico. Il problema si pone perché, essendo una malattia sessualmente trasmessa, tocca un ambito molto privato della vita delle persone. Spesso, e questo vale per tutte le malattie a contagio sessuale, si ha timore, se non proprio vergogna, a confidare al medico le proprie abitudini sessuali. Ecco che il primo approccio con i servizi sanitari arriva con estremo ritardo. Cosa che nel 2024 è inconcepibile”.
Come avviene la presa in carico del paziente HIV positivo da parte della sua unità operativa?
“Intanto, mi lasci dire, per conoscenza di tutti, che il test per l’HIV è gratuito e anonimo: al quarto piano dell’ospedale Perrino c’è il nostro ambulatorio, separato dal reparto, ma afferente all’unità operativa di Malattie Infettive. È aperto tutte le mattine, sei giorni su sette, e accessibile senza alcuna richiesta. Per il resto, cerchiamo di non complicare la vita ai pazienti. Li seguiamo facendo le prescrizioni e le prenotazioni, in modo che non debbano scontrarsi con i CUP e non debbano vagare di specialista in specialista senza una direzione. Sembra poco, ma non è così: spesso la burocrazia scoraggia la popolazione e limita l’accesso ai servizi sanitari. Vorrei anche precisare che i farmaci sono dispensati dalla nostra farmacia ospedaliera: di conseguenza, il paziente non deve recarsi nella farmacia del suo paese, dove tutti lo conoscono, a ritirarli. Considerato come ancora viene vista la patologia, sarebbe un attentato alla sua privacy”.
Com’è cambiato per l’operatore sanitario l’approccio con il paziente, sia in fase di diagnosi che in fase di gestione della malattia? Venti o trenta anni fa, con meno opzioni terapeutiche a disposizione, anche per voi sarà stato umanamente più complicato comunicare la positività.
“Moltissimo. All’inizio comunicare la diagnosi equivaleva a dare una notizia di morte certa. I tempi medi di sopravvivenza, in caso di malattia conclamata, quindi di AIDS, andavano dai sei mesi all’anno e mezzo. Oggi, quando osservo le facce atterrite e spaesate dei malati e delle famiglie, il mio primo atto di cura è convincerli che non sto bleffando quando dico che, facendo le cose per bene, l’aspettativa di vita è del tutto analoga a quella delle persone non infette”.
Riscontrate un aumento anche delle altre infezioni sessualmente trasmissibili, o il fenomeno è circoscritto all’HIV?
“Purtroppo stiamo assistendo ad un’impennata di infezioni sessualmente trasmesse. C’è persino un ritorno molto preoccupante della sifilide, cosa che per noi è una spia indiretta che anche l’HIV circola molto”.
Nel senso che chi contrae la sifilide è più vulnerabile all’HIV?
“Sì, un paziente positivo ad un’altra malattia sessualmente trasmissibile ha molte più probabilità di contrarre l’infezione da HIV, perché si determina nel paziente uno stato infiammatorio tale che le mucose sono più fragili e quindi più esposte a consentire l’ingresso del virus nel sangue”.
C’è stato un tempo in cui lei ha definito l’AIDS “flagello epocale”: adesso che tempo stiamo vivendo?
“È stato un flagello perché nel mondo, dall’inizio dell’epidemia, sono morte di AIDS più di quaranta milioni di persone. Però io credo che questo sia il tempo delle opportunità. Alla luce delle nuove possibilità terapeutiche e del fatto che i nuovi farmaci sono disponibili anche nei Paesi più poveri, noi abbiamo tutti i presupposti per sconfiggere l’epidemia. Non dobbiamo abbassare la guardia, ma guardiamo al futuro con ottimismo”.