di Alessandro Caiulo
Doveva essere una semplice camminata mattutina, all’alba della domenica dopo Ferragosto, lungo la battigia del tratto di litorale che dalla Pedagna Grande, costeggiando il Petrolchimico, porta verso le Saline di Punta della Contessa, in compagnia solamente della fedele macchina fotografica per catturare qualche bella immagine naturalistica e, invece, il tutto ha cambiato prospettiva quando, poco prima di Torre Cavallo, all’altezza del relitto del peschereccio albanese arenatosi sulle secche trent’anni fa e di recente collassato, sono quasi inciampato in una bottiglia di vetro trasparente, ciondolante sulla battigia, al cui interno, come in alcuni film di avventura tanto in voga quando ero ragazzo, vi era arrotolato, chiuso con un sottile legaccio, un foglietto di carta a mò di pergamena.
La bottiglia non aveva più alcuna etichetta, evidentemente cancellata dal mare, e l’unica scritta visibile, che ne potesse in qualche modo indicare la provenienza ed il contenuto originario, era sotto il tappo a vite che la richiudeva in maniera ermetica: “KUTJEVO 1232”, poi un piccolo stemma in mezzo a due grappoli di uva, e, in caratteri ancora più piccoli “Vallis Aurea”.
Da ricerche effettuate in rete, si tratta di un vino commerciale prodotto in Slavonia, una regione della Croazia nord-occidentale ad un migliaio di chilometri da Brindisi, ed il cui più antico stabilimento vinicolo risale, addirittura all’anno 1232. Il che ha ulteriormente aumentato il già alto tasso di curiosità che mi pervadeva.
Ho resistito alla tentazione di aprire immediatamente la bottiglia ed estrarne il contenuto per evitare che si rovinasse o, addirittura distruggesse, ed ho proseguito la passeggiata infilando nella tasca del pantaloncino la bottiglia di vino a costo di passare per un ubriacone, anche se, a dire il vero, a parte un paio di pescatori, in quattro ore su questo tratto di costa sconosciuto ai più non si è vista anima viva, mentre altrove, a mare, era tutto un brulicare di gente.
Ovviamente appena tornato a casa ho svitato il tappo della bottiglia ed aspettato pazientemente che si evaporasse quel poco di condensa che si era formata al suo interno, dopo di che ho sfilato il bigliettino che era ben stretto con un cordoncino con una piccola stellina dorata: il che ha fatto subito pensare che si potesse trattare di un messaggio scritto e lanciato in mare per gioco da una bambina.
Una volta srotolato il foglio di carta, appena segnato da qualche traccia di muffa, ciò che vi era stato scritto, con una biro blu e due diverse grafie, senza recare né data nè firme, non era comprensibile in quanto in una lingua straniera, apparentemente in tedesco, ma il traduttore automatico riconosceva solo pochissime delle parole ivi impresse.
Un’amica di origine tedesca, dopo averlo letto ed aver fatto una prima traduzione, non senza prima averci detto che si trattava di una storia molto triste, ha ammesso di non poter essere molto precisa in quanto si trattava di un dialetto in uso nella Svizzera Tedesca, per cui ho girato immediatamente il testo a una donna di Basilea sposata con un brindisino che mi confermava che era scritto in “Alemanno”, cioè una sorta di condensato/variante della lingua alto-tedesca che viene ancora parlata dalla popolazione di alcuni cantoni elvetici confinanti con la Germania dove, invece, è caduta da secoli in disuso.
“Cara piccola nostra Stellina, anche se sei stata per poco tempo nella nostra vita, hai trovato un posto speciale nei nostri cuori. Ti auguriamo di fare un buon viaggio e che trovi un bel posto nel Cielo. Veglia da lassù su di noi e sui tuoi fratelli, a presto (segue un nomignolo affettuoso impossibile da tradurre e rendere in italiano)”.
Il messaggio lanciato nel mare, forse dalla costa settentrionale della Croazia dove, probabilmente, la famigliola svizzera era in vacanza, e finito, dopo un lungo viaggio in balia delle correnti, sul litorale a sud di Brindisi, è una struggente quanto amorevole lettera di addio – ma con la speranza di un arrivederci, scritta con tratto femminile la prima parte, maschile la parte finale – dedicata dai genitori al loro bimbo, prematuramente scomparso ed affidata, forse nel corso di una piccola cerimonia famigliare alla presenza anche dei fratellini/sorelline cui si fa riferimento (la parola alemanna geschwister si riferisce indifferentemente ad entrambi i sessi), al mare che, mai come in un tal momento, è venuto a rappresentare il ritorno all’origine della vita; dal mare, infatti, provengono i primi esseri viventi apparsi sulla terra e nei nostri sogni il mare rappresenta l’inconscio, i nostri istinti ed i ricordi più profondi e duraturi.
Peccato non poter conoscere qualcosa di più della storia di questo bimbo e della sua famiglia, che nel messaggio lasciato in balia delle onde è voluta rimanere del tutto anonima, e peccato anche che non vi sia indicata la data e il luogo da cui è partita, anche se dalle condizioni della bottiglia, priva di incrostazioni, si può intuire che è stata in mare per pochi mesi. Che dalle coste della Croazia settentrionale, da dove probabilmente è partita, sia giunta fino a brindisi, non deve fare meraviglia in quanto le correnti che da Nord-Est spingono verso Sud-Ovest sono quelle prevalenti in Adriatico.
A questo proposito va evidenziato che, storicamente, il lancio delle bottiglie in mare, è stato molto utilizzato, per secoli, a partire dal IV secolo dopo Cristo, proprio per studiare le correnti marine e, solitamente, in quei casi, il messaggio contenuto all’interno indicava il laboratorio o l’università a cui chi l’avesse trovato doveva scrivere per segnalare il luogo e la data del ritrovamento. Va detto che alcune di queste bottiglie sono state ritrovate a distanza anche di un secolo in luoghi incredibilmente lontani da quello di partenza. Sul finire del XVIII secolo lo scienziato Benjamin Franklin lanciò un gran numero di bottiglie nell’Oceano Atlantico per studiare le correnti della costa orientale degli Stati Uniti d’America.
Inoltre anche nella realtà – e non solo nei romanzi, su tutti “I figli del capitano Grant” di Giulio Verne, in cui i protagonisti decidono di partire all’avventura dopo il ritrovamento di un messaggio in bottiglia in cui si chiedeva aiuto – è capitato varie volte che ad affidare al mare un richiesta di soccorso siano stati dei naufraghi confinati in un’isola sperduta nell’oceano, lontani dalla civiltà, che non avevano a disposizione altro modo per cercare di contattare chi potesse aiutarli.
Persino Cristoforo Colombo, nel XV secolo, non certo di un suo ritorno dai perigliosi viaggi oltreoceano, ha usato, come annotato puntualmente nel giornale di bordo, questo metodo per trasmettere a memoria delle sue scoperte.
Non solo richieste di aiuto o finalità scientifiche, ma anche sdolcinate frasi di amore o, al contrario, struggenti messaggi di addio da chi aveva capito di non avere alternative alla morte e di non avere a disposizione altri mezzi di comunicazione, sono stati affidati a bottiglie lanciate in mare nella speranza – è davvero il caso di dire che la speranza è l’ultima a morire…- che qualcuno un giorno potesse leggerli e, magari, consegnarli al destinatario.
Ad esempio, il 10 agosto 1952, su una spiaggia nei pressi di Cagliari, venne rinvenuta una bottiglia molto incrostata ma ben sigillata con all’interno un pezzo di tela strappato da una copertura di mitragliera contenente il seguente messaggio “R. Nave Fiume – Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani, via Eremiti 1, Salerno. Grazie signori – Italia!” Dopo accurate ricerche si trovò che il nominativo del marinaio, all’epoca della scomparsa appena ventiduenne, era tra quelli dispersi a seguito dell’affondamento dell’incrociatore Fiume, coinvolto nella battaglia navale di Gaudo e Capo Matapan del 28 marzo 1941 (undici anni prima nel mare Egeo, a sud del Peloponneso, a duemila chilometri di distanza dal luogo di ritrovamento in Sardegna) contro la flotta inglese, in cui trovarono la morte oltre duemila marinai italiani. Il caso fece molto scalpore e fu ampiamente trattato dalla stampa italiana con un moto di commozione che pervase tutta l’Italia, anche perchè la madre, la signora Anella Sacco, era ancora vivente e venne tempestivamente informata dai media prima ancora che dai vertici militari del messaggio di addio, pieno di amore per la famiglia e per la patria, che il figlio aveva affidato a quello stesso mare che lo aveva ingoiato e la memoria di suo figlio venne insignita dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi della medaglia di bronzo al valor militare.
Aggiornando ai tempi moderni l’antica tradizione dei messaggi in bottiglia, nel 1977 la NASA, l’Ente Spaziale Americano, inviò nel mare magnum dello spazio intersiderale, tramite le sonde Voyager 1 e 2, due dischi in oro (Golden Records), in modo da poter resistere anche per molte migliaia di anni, con incisi suoni e immagini della nostra civiltà terrestre, all’insegna della fratellanza universale, indirizzati ad eventuali popoli alieni.