Di Marina Poci per Il7 Magazine
“Dieci anni di un’amicizia malata e quasi sette di vera e propria schiavitù”: così Francesco (è un nome di fantasia, che ha scelto lui stesso) definisce quello che ha vissuto e a cui il Tribunale di Brindisi, lunedì 18 dicembre, ha messo finalmente un punto.
Un punto che gronda lacrime e sangue, nel senso letterale dell’espressione, e che assume la forma giuridica di una sentenza di condanna, a tre anni e due mesi di reclusione, per l’uomo, lo chiameremo Giovanni, che a Francesco ha letteralmente rovinato la vita, distruggendone l’autostima, riducendone l’autonomia di movimento, condizionandone il pensiero, costringendolo ad allontanarsi dagli affetti più cari, addirittura appropriandosi della sua l’identità attraverso il profilo sul social network Facebook, sul quale Francesco non era più libero di postare contenuti a suo piacimento.
“Parlo con il vostro giornale non perché mi piaccia mettere in piazza i fatti miei, ma per fare capire che subire non è mai giusto. Io per anni sono stato soggiogato da questa persona che ho ospitato per amicizia, mentre attraversava un momento di difficoltà (o almeno così pensavo), in quella che era la casa di mio padre e che, alla sua morte, è diventata mia. Ma di quell’abitazione non ho potuto godere per tanto tempo: nemmeno il mio letto ero libero di usare, perché quest’uomo, che consideravo un amico, mi costringeva a dormire in una stanzetta”. In quella stanzetta, Francesco si chiudeva a chiave tutte le notti, perché Giovanni, già aggressivo per natura, quando rincasava ubriaco diventava ancora più violento, sia verbalmente che fisicamente.
Di Francesco non sappiamo nulla, se non quello che sceglie di dirci: ha tra i cinquanta e i sessant’anni, svolge un lavoro da libero professionista e, prima che questa terrificante vicenda iniziasse, aveva una vita pressoché normale (una ex moglie, una figlia, un padre anziano di cui si occupava con grande attenzione). Ci chiama dal telefono della sua avvocata, Ilaria Baldassarre, che ci mostra la sentenza di condanna, a firma del giudice Adriano Zullo, con i nomi dei protagonisti, i recapiti telefonici e i luoghi oscurati da un pennarello nero molto marcato. Francesco parla da uno dei paesi più piccoli della provincia di Brindisi e, prima di iniziare a rievocare i fatti, si assicura più e più volte che non indicheremo quale sia. Poi si apre al racconto doloroso e pudico di come un’amicizia di svariati decenni sia diventata poco alla volta un legame opprimente e violento, capace di generare sottomissione e terrore e di annullare la personalità di un uomo che per lungo tempo si è sentito in pericolo di vita e ha temuto per la vita delle persone amate.
Nell’agosto del 2016 la vittima offre momentanea ospitalità all’amico Giovanni, che conosce da una vita, perché hanno frequentato insieme le scuole elementari: l’accordo prevede che in quella casa, dove Francesco vive con il padre, Giovanni ci rimanga soltanto qualche giorno. È un’abitazione che Giovanni conosce bene: ogni tanto, negli anni precedenti, ci ha passato qualche notte, consumato qualche pranzo, fatto qualche doccia. Il sostegno di Francesco, tutte le volte che ne ha avuto bisogno, non gli è mai mancato. Peraltro, all’inizio la convivenza procede senza particolari problemi: Giovanni appare educato, collaborativo, disponibile a prestare assistenza al padre di Francesco nelle incombenze quotidiane. La prima richiesta a lasciare l’abitazione arriva dopo circa un mese, ma Giovanni fa le orecchie da mercante, accampa scuse, temporeggia. La morte del padre di Francesco, a giugno dell’anno successivo, rappresenta uno spartiacque: Giovanni si comporta come se l’abitazione, che Francesco eredita, sia diventata di sua proprietà. E, appropriandosi di fatto della casa, si appropria della vita dell’amico. Non c’è giorno che Francesco non sia insultato, vessato, minacciato, picchiato, gratuitamente e senza alcun motivo: “Non si è mai rivolto a me chiamandomi per nome, io per lui ero sempre “ué, coglione”. Mi maltrattava in ogni modo possibile, mi strappava di mano il cellulare per impedirmi di parlare con mia figlia, mi ha persino distrutto il computer che usavo per lavoro. Malgrado la convivenza, tutte le spese erano a mio carico. Non ha mai pagato una bolletta, né è mai andato al supermercato. Quando rientrava ubriaco, ero il suo sfogo preferito: calci, pugni, schiaffi, bestemmie, minacce di morte (“ti sparo, ti apro la testa, ti ammazzo di botte”). Più passava il tempo e più mi sentivo soggiogato: mi vergognavo a parlarne, ero convinto che nessuno avrebbe capito e temevo il giudizio delle persone. Ma, soprattutto, avevo paura che, se la storia fosse venuta fuori, Giovanni, del quale conoscevo bene i modi violenti, avrebbe potuto fare del male a mia figlia e alla mia ex moglie”. È quello che dicono tutte le vittime di violenza: c’è una soglia oltre la quale ci si abitua a ogni abuso, superarla significa restarne sopraffatti e non riuscire più a liberarsi. Salvo avere la netta percezione di stare per morire. Allora l’istinto più radicato che abita l’essere umano, quello di sopravvivenza, prende il sopravvento. Probabilmente, se non avesse rischiato sul serio la vita, Francesco avrebbe continuato a subire. Lo ammette con la lucidità che soltanto chi è stato lambito dalla Nera Signora possiede.
Il punto di rottura arriva il 28 novembre 2021, intorno alle 20,30: è una data che Francesco non dimentica, perché non puoi dimenticare la sera in cui sei costretto a uscire da casa tua in pantofole, con la maglia del pigiama insanguinata, senza nemmeno riuscire a prendere il cellulare, per correre quanto più velocemente possibile verso la casa di tua figlia. Giovanni lo picchia dopo aver perso una grossa somma di denaro alle slot machine. Sì, perché oltre che dedito all’alcol, Giovanni è ludopatico. Francesco con le scommesse perse non ha niente a che fare, ma il suo ripetuto silenzio e la sua remissività ne fanno un ottimo sfiatatoio per la furia distruttiva del coinquilino, che si accanisce su di lui con tutta la forza di cui è capace. Francesco è annientato nello spirito, ma il suo corpo – fortunatamente – ancora risponde ai comandi. È con quell’ultima stilla di forza che si divincola e fugge dalla figlia che in questi anni ha trascurato, vergognandosi di mostrarsi a lei nello stato di prostrazione a cui Giovanni lo ha costretto e temendo di metterla in pericolo. Viene soccorso dal personale del 118 e da una pattuglia dei Carabinieri che sopraggiunge poco dopo. Ci vorrà ancora più di un mese perché Francesco recuperi la sua abitazione, della quale rientra in possesso a gennaio del 2022. Nel frattempo è stato ospitato da sua figlia. Giovanni ha provato più volte a contattarlo, ha chiesto in giro notizie su di lui, ha continuato a vivere in quella casa teatro di abusi sino a quando la figlia di Francesco, accompagnata dai Carabinieri, non ha sostituito la serratura.
Ai fatti del 28 novembre è seguita una denuncia, a quella denuncia è seguito un processo, nel quale Giovanni ho provato a difendersi dicendo che la convivenza era tranquilla, che lui partecipava alle spese, che tutte le rinunce della vittima sono state frutto di una sua libera scelta.
“Ma non è vero niente”, sbotta Francesco, “non ho più scelto niente nella vita da quando quell’uomo si è intrufolato in casa mia. Non esagero se parlo di schiavitù. Ero terrorizzato che mi facesse ancora più male e che coinvolgesse la mia famiglia. Non mi sarei mai perdonato se fosse capitato loro qualcosa, per questo mi adeguavo a tutte le sue richieste”.
Il giudice ha ritenuto che le condotte perpetrate da Giovanni ai danni di Francesco abbiano integrato gli estremi dei delitti di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate dalla circostanza della convivenza. La condanna a tre anni e due mesi di reclusione, per effetto della riforma Cartabia, si è modificata in condanna alla detenzione domiciliare, con divieto di avvicinamento a Francesco e ai luoghi da lui frequentati, divieto di accompagnarsi a pregiudicati e persone sottoposte a misure di sicurezza e prevenzione, divieto di detenere armi, libera uscita soltanto per poche ore al giorno reperibilità totale, anche telefonica, rispetto ai controlli delle forze dell’ordine.
Francesco e Giovanni, dopo l’udienza in cui Giovanni si è sottoposto all’esame dell’imputato, non si sono più incrociati. Sembra inverosimile, considerate le dimensioni del paesino in cui entrambi abitano, ma davvero non c’è mai stato nessun incontro. “Mi risulta che viva con la madre, prima della sentenza ha provato in qualche occasione a citofonare a casa mia, ma naturalmente non gli ho mai aperto. Sono grato alla mia avvocata per come mi è stata vicina in questi anni, anche umanamente. Se ho paura che mi faccia ancora del male? Un po’. Più che altro ho paura per i miei famigliari. Se sono pentito di non averlo denunciato prima? Sì, lo sono, e molto. Avrei potuto e dovuto denunciarlo quando le cose hanno iniziato a degenerare. Se lo avessi fatto, avrei avuto più tempo per me e per la mia vita. Ho perso quasi dieci anni dietro a questa persona e vorrei che la mia esperienza fosse di esempio a chi vive lo stesso tipo di situazione: denunciate, fidatevi delle forze dell’ordine, fidatevi della giustizia”, conclude Francesco.
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