Di Marina Poci per il numero 317 de Il7 Magazine
Del suo primo ricovero, quello a cui è seguito l’intervento chirurgico per rimuovere l’osteosarcoma al perone che le procurava dolori lancinanti, non ha ricordi pieni. Soltanto istantanee di immagini che la accompagnano da quando, ancora prima di compiere quattro anni, ha dovuto fare i conti con ospedali, lunghe trasferte, terapie invasive: istantanee che includono lo sguardo preoccupato della mamma, la mano leggera del papà mentre le rasa i capelli, un’infermiera particolarmente affettuosa che le accarezza il viso, la sorellina gemella che viene affidata agli zii per permettere ai genitori di seguirla nelle cure. Poi la memoria di Lucia Valente, brillante studentessa di Psicologia di San Vito dei Normanni, 21 anni appena compiuti, comincia a farsi più nitida: tocca i viaggi annuali di monitoraggio, i postumi di un’operazione che, nel salvarle la vita, le ha comunque lasciato conseguenze pesanti, il timore della recidiva e il senso di sconfitta provato tutte le volte in cui le veniva detto di ritenersi fortunata quando lei avrebbe soltanto, legittimamente, voluto vivere libera di indossare un vestitino corto e un bel paio di sandali col tacco. Una memoria lucida, coraggiosa, tenace, fiera e consapevole di sé, quella di Lucia, paziente oncologica sin dal 2008, ad appena tre anni e mezzo, e oggi, a settembre del 2025, giovane donna in convalescenza tra telefonate e lavoro all’uncinetto, ansiosa di capire se l’intervento d’avanguardia a cui si è sottoposta all’ospedale ortopedico Rizzoli di Bologna, nel raddrizzarle il piede, potrà curvarle la vita verso la direzione che il suo spirito impavido merita.
Un intervento che ha voluto, cercato, desiderato a lungo, a partire da quando la molla di Codivilla, il tutore che utilizza per evitare di inciampare, ha iniziato a diventare una prigione piuttosto che una risorsa.
Ce lo spiega nel corso di una conversazione telefonica degna del posto d’onore in ogni reparto ospedaliero in cui il rischio di lasciarsi vincere dallo scoramento è vero, concreto e reale: c’è, nelle sue parole misurate eppure risolute, lo spessore dolente e tuttavia quieto di chi ha imparato a riconoscere il valore inestimabile del dono della vita nel momento in cui la sua unica preoccupazione avrebbe dovuto essere la scelta del colore dello zainetto da portare a scuola o la decisione su quale bambolina chiedere a Babbo Natale.
La ascoltiamo parlare senza interromperla e in pochi minuti Lucia Valente smonta la retorica insopportabile del paziente combattente e del guerriero eroicamente in lotta contro “il mostro” e apre alla logica dell’accettazione del proprio destino e della riconciliazione con il proprio corpo, provato dalla malattia, ma ancora capace di una risposta fisica tale da incoraggiare il professor Cesare Faldini del Rizzoli a eseguire l’intervento che tutti gli altri ortopedici consultati si erano rifiutati di effettuare.
“L’operazione che ho subìto quando avevo tre anni e mezzo, insieme alla chemioterapia, mi ha salvato la vita, ma ha comportato l’asportazione parziale del perone, la recisione del nervo sciatico, la paralisi del nervo sciatico popliteo esterno e, da quel momento in poi, un piede permanentemente cadente, pronato, valgo e piatto, che mi ha obbligata a indossare sotto ai pantaloni un tutore chiamato molla di Codivilla, indispensabile per una deambulazione sicura. L’ho accettata, è stata il prezzo della mia guarigione, ma negli ultimi anni ho iniziato a non considerarla più come una parte di me, anche perché il dolore fisico che può causare, se la pelle si lacera, è davvero insopportabile. È stato intorno al 2022, in corrispondenza dell’ultimo controllo, che ho capito che non ero obbligata a rassegnarmi, che avevo ancora il diritto a sperare di poter vivere senza la molla. Così mi sono messa alla ricerca di un ortopedico che sperasse insieme a me. Non è stato semplice trovarlo, così come non è stato semplice nel 2008, quando mi sono ammalata, riuscire ad avere la diagnosi. Io ero molto piccola e non riuscivo a spiegare ai miei genitori quanto fosse forte il dolore che provavo alla gamba. Ricordo soltanto che prima di arrivare al Rizzoli, ci eravamo sentiti dire che sarebbe passato una volta che fossi cresciuta. Pensavano che fosse una frattura che con il tempo si sarebbe saldata e ci hanno consigliato riposo…”, spiega Lucia con calma e semplicità, senza che una stilla di risentimento la attraversi mentre parla di quella sofferenza incompresa che, qualche mese dopo, a Bologna si è guadagnata il nome di osteosarcoma, il tumore osseo più comune (e quindi più facilmente diagnosticabile…) nei bambini e negli adolescenti.
Dopodiché il primo intervento, preceduto dal timore che fosse necessaria l’amputazione dell’arto, fortunatamente evitata (“papà mi ha raccontato che, una volta che sono tornata in reparto dalla sala operatoria, la prima cosa che ha fatto è stata sollevare il lenzuolo per accertarsi che la gamba fosse ancora al suo posto”), poi diversi anni di controlli negativi in quell’ospedale che diventa casa e famiglia e infine lo spettro di una recidiva nel 2017, quando aveva tredici anni e alcuni noduli polmonari hanno impensierito i medici al punto da rendere necessario un nuovo ricovero e un nuovo intervento, all’esito del quale l’incubo viene scongiurato.
Dal professor Faldini, che insieme al dottor Antonio Mazzotti l’ha operata il 28 agosto scorso, è arrivata a marzo. “Non può finire tutto così, mi sono detta. Devo pur riuscire a ottenere qualche miglioramento. La medicina ha fatto tanti progressi, ci sarà qualcosa che si potrà fare per me. Davvero dovrò portare la molla per correggere il piede cadente per tutta la vita?”: osservazioni di un’adolescente in procinto di sostenere presso il liceo psicopedagogico Ettore Palumbo di Brindisi l’esame di maturità (peraltro superato con cento e lode, insieme all’inseparabile gemella), osservazioni che dopo le perplessità di diversi altri ortopedici la conducono ancora lì, nella dotta, grassa e rossa Bologna, dove, a distanza di tredici anni dall’intervento salvavita, affronta l’intervento che, di quella vita conquistata a strappi e morsi, dovrebbe migliorare la qualità.
“Dopo il 2022 le conseguenze della prima operazione si sono accentuate, ma i medici erano titubanti, Anche il professore che mi aveva operata nel 2018 mi ha sconsigliato di sottopormi ad un’altra procedura. Temeva che la mia caviglia fosse troppo fragile e non supportasse adeguatamente il lavoro necessario a correggere la posizione del piede. La stessa cosa mi è stata detta altrove: secondo un altro medico a cui mi sono rivolta, le condizioni di muscoli, nervi e tendini della mia gamba, funzionanti a mezzo servizio, non consentivano di immaginare un miglioramento. Per un po’ di tempo mi sono arresa: ero demotivata, apatica, senza prospettive. Poi ho letto del professor Faldini, dei suoi premi, degli interventi complicatissimi e rischiosissimi che ha avuto il coraggio di eseguire. Perciò ho prenotato una visita con lui, dicendomi che, se fosse andata male, avrei abbandonato l’idea di tornare sotto i ferri. Quando è entrato nella stanza, mi ha sorriso come se mi conoscesse da sempre, eppure era la prima volta che lo vedevo”.
Un atteggiamento che ha predisposto Lucia all’ottimismo e alla fiducia dopo mesi in cui aveva accantonato la speranza di camminare senza l’ausilio della molla di Codivilla. Ma non è stato soltanto il sorriso a rianimarla: l’ortopedico più premiato al mondo (giacché ha conseguito, malgrado la giovane età – appena 53 anni – , il maggior numero di riconoscimenti (trenta) dell’American Academy of Orthopaedic Surgeons, la più autorevole società scientifica internazionale della chirurgia ortopedica) l’ha definitivamente conquistata nel momento in cui, dopo aver messo la mano sotto al piede e averle chiesto di spingere, ha esclamato “Però, quanta forza c’è qui! Se vuoi posso farti una bella trasposizione!”.
È stato esattamente allora, quando “il santo che fa miracoli con le ossa” (così Lucia Valente, con affetto e gratitudine, definisce il professore) ha accennato all’ipotesi negata ed esclusa da tutti gli altri medici, che Lucia Valente ha capito di avere incontrato la persona giusta: “Non mi ha assicurato che riuscirò a fare a meno della molla, ma mi ha dato la forza di credere che potrebbe accadere. Il professore e il dottor Mazzotti, la cui professionalità è pari all’umanità che mi ha sempre dimostrato, si sono fatti carico del mio sogno di camminare senza ausili e mi hanno dato l’opportunità di realizzarlo. Se anche non dovesse avverarsi, sarei comunque felice di averci provato”.
Da qualche giorno Lucia Valente è a casa, nella sua San Vito: affronterà una convalescenza lunga a cui seguirà un periodo ancora più lungo di fisioterapia in un centro non ancora individuato. Tornerà a Bologna il 30 settembre per la rimozione dei punti e del primo gesso. Ma il suo orizzonte temporale è spostato “un tantino” più in là: alla prossima estate e alla speranza di una passeggiata al mare insieme alla sorella, in abitino corto e scarpe aperte, finalmente libera dal vincolo della molla… e alla sua vita da futura psicologa, ansiosa di portare conforto in quell’ospedale che dall’età di tre anni e mezzo l’ha vista paziente e nelle cui corsie, indipendentemente dall’esito di quest’ultimo intervento, desidera tornare a camminare col passo di chi si è riconciliata con la propria storia.