
di Alessandro Caiulo per il7 Magazine
Nelle mie intenzioni avrei dovuto descrivere le peculiarità del mare di inverno a Brindisi nel corso della lunga immersione che avevo in animo di effettuare il giorno di Santo Stefano. Ma, sarà per l’età che incombe o per effetto degli stravizi natalizi a tavola, solo quando era troppo tardi per rimediare, mi sono reso conto che tutte le mie bombole erano irrimediabilmente scariche, per cui sono rimasto, da questo punto di vista, all’asciutto.
La giornata sarebbe stata perfetta: il mare calmo e piatto come una tavola e caldo come se fosse inizio autunno o metà primavera, il sole splendente in cielo, la temperatura mite, non una nuvola o una bava di vento, la visibilità in acqua sicuramente eccezionale ed io senza aria nelle bombole!
Ho allora ripiegato in qualcosa che proprio ripiego non è: una bella e lunga passeggiata in uno dei miei luoghi preferiti, anzi quello preferito sulla terraferma, anche perché a contatto diretto con il mare e tutt’altro che asciutto, trattandosi della Zona Umida delle Saline di Punta della Contessa, un autentico miracolo naturalistico, stretto fra la Centrale Termoelettrica a carbone Federico II di Cerano a sud ed il Petrolchimico a nord.
Fino a pochi anni fa la zona umida degli stagni e delle saline di Punta della Contessa, pur essendo lì da millenni, era pressocchè sconosciuta anche ai brindisini, in qualche modo volutamente ignorata per dar maggiore lustro a quelle decisamente più antropizzate e sfruttate dal punto di vista prettamente economico di Torre Guaceto, posta fra Brindisi e Carovigno e delle Dune Costiere, fra Ostuni e Fasano, ma è sicuramente quella più affascinante ed interessante dal punto di vista naturalistico e forse questa è stata una fortuna, in quanto ha consentito e consente alle oltre cento specie animali censite nella sua area, molte delle quali rare o, addirittura, a rischio di estinzione, di vivere tranquillamente, lontano dal disturbo umano e spesso anche proliferare.
Istituito come parco con Legge Regionale nel 2002, poi, in forza di una convenzione sottoscritta dal sindaco dell’epoca Domenico Mennitti, è stato affidato dalla Regione Puglia al Comune di Brindisi, ma senza che questo, nonostante il succedersi di diverse amministrazioni intervallate da commissari prefettizi, sia fino ad ora riuscito a creare una struttura in grado di gestirlo e di tutelarlo come meriterebbe.
A dirla tutta il parco delle saline è stato abbandonato a se stesso, vittima dell’incuria dell’uomo e della assenza più totale degli enti preposti allo sviluppo, alla vigilanza ed al controllo, con gli animali che dovrebbero essere protetti dalle istituzioni, spesso vittime di bracconaggio o, come accaduto di recente, anche di incendi dolosi. Non vengono effettuate verifiche periodiche sulla condizione dei luoghi, non esiste una cartellonistica aggiornata, essendo quella affissa tre lustri addietro andata completamente distrutta e mai sostituita, né sono stati creati percorsi utili ai visitatori, pur essendo state installate anni addietro, due casette in legno come punti di osservazione degli uccelli.
Essendomi andato a rileggere cosa scrissi a questo proposito cinque anni fa, mi rendo conto che poco o nulla è cambiato, se non la maggiore sensibilità che ha acquisito la cittadinanza sull’argomento.
L’area costituisce un importante sito di riproduzione per specie anche rare dell’avifauna e svolge un ruolo d’importanza internazionale per la salvaguardia delle specie migratorie ed acquatiche.
Si tratta di un habitat che comprende tutto un insieme di bacini costieri che, alimentati da canali e da sorgenti di acqua dolce provenienti dall’entroterra, godono della vicinanza al mare, dal quale sono separati da un esile cordone di dune, a volte superate dalle mareggiate, il che rende le acque salmastre e l’intero ecosistema particolarmente ricco, interessante ed aperto alla vita, come è sempre quando acqua dolce ed acqua salata si incontrano.
Tutto ciò, nonostante abbia anche essa subito alcune nefaste conseguenze per la presenza invasiva, cupa ed ingombrante dell’uomo come testimoniato dall’inferno di Micorosa – un’enorme discarica di veleni frutto di mezzo secolo di sciacallaggio industriale, che da ultimo si stanno solo incapsulando e tombando senza che realmente si bonifichi il sito – posta proprio a ridosso, per non dire all’interno, di questo paradiso naturalistico.
Le lagune costiere di Punta della Contessa, come abbiamo accennato, sono di un grande valore naturalistico soprattutto per la varietà delle specie avicole presenti, in quanto si trovano lungo le principali rotte degli spostamenti migratori dall’Europa all’Africa e viceversa, per cui non solo si presta alla sosta, allo svernamento ed alla nidificazione di diverse specie, ma molte di esse, gradendo il clima mediterraneo particolarmente mite della nostra terra baciata dal sole, oramai sono divenute stanziali.
È possibile, perciò, ammirare, pressocchè in ogni periodo dell’anno, una gran quantità di anatre di superficie come i Codoni, le Volpoche, i Germani reali, le Alzavole, le Marzaiole ed i Mestoloni, uccelli di ripa come la Pavoncella, il Piviere dorato ed il Chiurlo ed anche uccelli acquatici di fondo come le Folaghe, i Moriglioni, gli Svassi ed i Tuffetti, oltre che, specialmente in inverno, al mattino e sul far della sera, i Cormorani, spesso descritti come famelici predatori e come specie invasiva da sopprimere, laddove da sempre fanno parte del patrimonio faunistico delle nostre coste. Numerosi ed affascinanti sono anche i trampolieri ospiti delle Saline come le varie specie di Aironi (cenerino, bianco maggiore, guarda buoi e garzetta), le Spatole, ma occasionalmente sono presenti anche le Beccacce di mare ed in estate è sito riproduttivo dei Cavalieri d’Italia, numerosi anche i piccoli limicoli, cioè quegli uccelli che trascorrono molto tempo, sia alla ricerca del cibo, sia per nidificare, in ambienti fangosi, rivieraschi, con ampie zone in cui sia possibile cercare cibo nell’acqua bassa o nel fondale fangoso, come i Piovanelli e i Voltapietre.
Ovviamente in un contesto del genere non possono mancare i rapaci come Gheppi, Poiane e Falchi di palude, presenti tutto l’anno, ma, ovviamente, la presenza di una tale varietà di specie attira in questo periodo anche rapaci svernanti come la magnifica Aquila minore e l’Albanella reale.
Ma la vera attrazione, se così si può dire, delle Saline di Punta della Contessa, meta privilegiata di fotografi naturalisti, studiosi e semplici appassionati che, pur di ammirarlo non hanno remore a mettere a dura prova le sospensioni e gli ammortizzatori delle proprie autovetture e percorrere lunghi tratti a piedi sotto il sole cocente di estate e con i piedi nel fango l’inverno, è senza ombra di dubbio sua maestà il Fenicottero rosa.
Si tratta di una specie solitamente migratrice, svernante, parzialmente stanziale, distribuita in limitate località dell’Eurasia e dell’Africa, dove è sottoposta a tutela internazionale in quanto molto specializzata dal punto di vista ecologico e con uno stato di conservazione decisamente sfavorevole. Da qualche anno i fenicotteri frequentano, aumentandone il valore naturalistico, le lagune costiere delle Saline di Punta della Contessa con gruppi più numerosi durante i periodi migratori e con un certo numero di individui divenuti oramai stanziali. Nelle basse acque salmastre della nostra zona umida hanno trovato il loro habitat dove sostare, rifugiarsi ed alimentarsi. L’osservazione di anelli applicati attorno alla zampa di alcuni esemplari ha permesso di rilevare la presenza di fenicotteri provenienti dalla Spagna, ma anche dalla vicina colonia delle Saline di Margherita di Savoia (Foggia), dove nidificano a centinaia su piccole isole di sabbia o fango appena emergenti dalla superficie acquatica. Steppe salate mediterranee, stagni temporanei, lagune costiere, tra Capo di Torre Cavallo e Punta della Contessa, sono uno scrigno di bellezza naturalistica e quindi di biodiversità, di cui i fenicotteri, insieme ad altre specie protette e prioritarie per la comunità europea, sono sicuramente l’espressione più sorprendente o, quanto meno, quella che desta maggiore stupore fra i visitatori dell’area.
Tornando alla passeggiata di Santo Stefano, lascio l’auto nei pressi della Masseria Villanova, la quale, in origine, era l’antica abazia italo-greca di Santa Maria de Ferulellis, già nota nel XII secolo, alcuni secoli dopo inglobata nella attuale struttura con al centro una torre di guardia che ne ricorda un utilizzo anche militare. Tale masseria una decina di anni addietro fu acquisita al patrimonio comunale e ristrutturata a caro prezzo, quasi un milione di euro, per poter essere adibita proprio a centro visite del parco ma, di fatto, mai utilizzata è colpevolmente abbandonata a se stessa, incustodita, in balia di ladri e vandali che l’hanno resa nuovamente inutilizzabile, certificando, nei fatti, lo spreco del denaro pubblico speso.
Nonostante non piovesse da parecchi giorni, indosso egualmente dei robusti gambali di gomma per poter percorrere i circa due chilometri che mi separano dalla meta e mai scelta fu più azzeccata dal momento che in alcuni punti si sprofondava anche di una decina di centimetri nel fango viscido e scivoloso, ma lo spettacolo che mi offrono gli oltre cento fenicotteri, divisi in quattro diversi gruppetti, mi ripaga di ogni fatica e sforzo.
Ho il pregio di assistere – anche se ciò non dovrebbe accadere in inverno e non è un bene che accada in questa stagione, ma la temperatura primaverile che permane da settimane e l’inverno che non si decide ad arrivare stanno traendo in inganno sia la flora che la fauna mediterranea – alla cosiddetta danza dei fenicotteri, un rituale pre-accoppiamento primaverile, in cui maschio e femmina si corteggiano e posizionandosi l’uno di fronte all’altra con i loro sinuosi colli vengono a formare un grande cuore rosa. Ho cercato zoomando al massimo l’obiettivo della mia fotocamera di poter riprendere in qualche scatto tale rituale, anche se la distanza da cui mi trovavo era quasi proibitiva.
Tanto ero preso dallo spettacolo che nelle quasi due ore che sono rimasto a guardare neanche mi sono preoccupato più di tanto di osservare le svariate specie di anatre ed altri uccelli presenti nei bacini costieri e che ho avuto modo di notare solo una volta in casa, rivedendo, con somma soddisfazione le foto da me stesso scattate!
Ogni volta che faccio un salto alle Saline, oppure all’invaso di Fiume Grande che del parco delle saline fa parte, mi sorgono spontanee sempre le stesse considerazioni: se la nostra Brindisi, nonostante sia stata letteralmente devastata negli anni dalla cementificazione ed industrializzazione selvaggia -allorquando si è spacciato per progresso e per ricchezza ogni genere di sopruso che si è compiuto non solo nei confronti del patrimonio naturalistico, ma anche di quello, storico, monumentale ed artistico e, ancor oggi, c’è chi osa tacciare di retrogrado chi si permette di porre l’accento sulla sua salvaguardia – riesce a conservare, nonostante tutto, un immenso fascino ed è tuttora meta prediletta dell’avifauna selvatica che continua a sceglierla, come avrebbe potuto essere la nostra città se, anzichè sulla chimica, sulla plastica, sul cemento e sul carbone, si fosse seguita la sua antica vocazione agricola e marinaresca, esaltando anziché sfruttando quanto il buon Dio gli aveva messo a disposizione? Sarebbe, sicuramente, un’altra Brindisi, un vero paradiso in terra, capace di esercitare una vera forza attrattiva non orientata verso fugaci croceristi “mordi e fuggi”, ma in grado di esercitare il proprio fascino per migliaia e migliaia di turisti,