La mamma di Paolo Stasi: “Fumavamo marijuana insieme, ma è stato ucciso senza motivo”

Di Marina Poci per il numero 369 de Il7 Magazine
Il passo, mentre raggiunge lo scranno, è quieto eppure risoluto. Il timbro della voce, quando risponde alle domande, è cristallino. Lo sguardo è dritto, focalizzato, quasi sfidante, quando ammette che nella stanza del figlio venivano confezionati marijuana e hashish, che lei stessa, insieme al giovane, era abituata a farne un uso quasi quotidiano e che – solamente ogni tanto – qualche dose non veniva pagata. Così si presenta, nella tarda mattinata del 24 settembre, alla Corte d’Assise di Brindisi presieduta da Maurizio Saso (a latere Adriano Zullo), la 54enne Annunziata D’Errico, madre di Paolo Stasi, il 19enne francavillese ucciso a colpi di pistola davanti all’uscio della propria abitazione il 9 novembre 2022.
Per quel delitto è già stato condannato in primo grado con rito abbreviato a venti anni di reclusione dal Tribunale per i Minorenni di Lecce Luigi Borracino, killer reo confesso, all’epoca dei fatti 17enne. È ancora sotto processo per concorso in omicidio Cristian Candita, accusato di averlo accompagnato ed atteso in macchina nei pressi di via Occhi Bianchi numero 16, dove Paolo viveva insieme ai genitori e alla sorella maggiore Vanessa.
Secondo la ricostruzione del sostituto procuratore della Repubblica Giuseppe De Nozza, titolare dell’inchiesta, all’origine di quella morte vi fu un debito di droga maturato dalla vittima e da sua madre, abituati a consumare insieme marijuana e hashish. Il fornitore di quelle sostanze stupefacenti era proprio Borracino, che infatti, insieme ad altre otto persone, tra cui la D’Errico, davanti alla Corte brindisina risponde anche di reati in materia di droga (per il periodo in cui aveva già raggiunto la maggiore età).
Nella doppia veste di persona offesa costituita parte civile, perciò testimone, e di imputata per il reato di concorso in detenzione illecita di sostanze stupefacenti, la madre di Paolo Stasi si accomoda sulla sedia dell’aula Metrangolo del Palazzo di Giustizia brindisino, sulla quale resterà per più di cinque ore con addosso gli occhi di tutti i presenti.
Dopo una preliminare battaglia in punto di diritto tra il PM e l’avvocato Maurizio Campanino, difensore di Candita, circa la veste processuale che D’Errico dovrà assumere, si conviene per esaminarla in qualità di testimone assistita, con le garanzie che la legge le riconosce in quanto imputata di reato connesso o collegato. Le viene fatto avviso che, sui fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale in ordine al reato per cui si procede nei suoi confronti, è esonerata dall’obbligo di deporre.
Ma Annunziata D’Errico sceglie di rispondere a tutte le domande.
Con una sola essenziale eccezione, una soglia invalicabile di tollerabilità all’intrusione altrui oltre la quale a nessuno consente di inoltrarsi: ad essere processata per come ha svolto il suo ruolo di madre non ci sta e, quando il difensore di Candita prova a battere quel terreno, con tono piccato risponde che non è del suo rapporto con Paolo che deve rispondere al Tribunale e che non è chiamata a difendersi su questioni che riguardano gli appellativi con cui il figlio le si rivolgeva (“capo” o “boss”), né su quel consumo condiviso di sostanze stupefacenti che forse risale a quando Paolo era ancora minorenne.
È un’interlocutrice impegnativa, Annunziata D’Errico, per magistrati e avvocati, ai quali ribatte punto per punto con lucidità, fermezza e persino quel pizzico di sfrontatezza che, chissà, forse è quanto le permette di non franare emotivamente davanti alle (legittime) osservazioni del presidente della Corte, del pubblico ministero e dei difensori: laggiù, in quel luogo della coscienza in cui è soltanto un genitore precocemente privato del figlio, a tutti è impedito di penetrare. Se nutra dei sensi di colpa, se si senta in qualche maniera responsabile per ciò che è accaduto a Paolo, resta confinato nella dimensione extra-processuale della vicenda.
Del figlio ricorda il carattere schivo, sensibile e generoso, ma anche testardo: Paolo era un ragazzo appassionato di fumetti giapponesi, giocava e chattava molto con il cellulare, faceva molti acquisti online, si era appena diplomato all’istituto alberghiero ma non lavorava ancora, ogni tanto dava una mano in casa, spesso passava del tempo con la nonna gravemente ammalata, trascorreva la maggior parte della sua giornata nella piccola stanza che, entrando nell’appartamento di via Occhi Bianchi, è posizionata sulla sinistra.
In quella stessa stanza, Paolo Stasi, due o tre volte a settimana e sempre dopo le 18, riceveva Luigi Borracino, il ragazzo che il Tribunale dei Minorenni di Lecce, nella persona della Giudice dell’udienza preliminare Lucia Rabboni, ha accertato essere il suo killer. In quella stessa stanza, Annunziata D’Errico asserisce di aver sorpreso Paolo e il suo unico amico, la sola persona che avesse accesso a casa Stasi, a confezionare dosi di “erba” del quantitativo di circa un grammo ricavandole dalle buste di contenuto ben più consistente (“forse cento grammi”) che Borracino trasportava in via Occhi Bianchi all’interno di una borsa verde in plastica riutilizzabile, di quelle che normalmente ci si porta dietro al supermercato per evitare di dover riporre la spesa in sacchetti poco resistenti. In quella stessa stanza madre e figlio, all’insaputa del padre e della sorella, fumavano quelle che lei chiama canne e il PM chiama spinelli, perché, spiega Annunziata D’Errico, “in quel periodo lavoravo tantissimo, pulizie di mattina e dal pomeriggio alla notte in un bar, avevo bisogno di rilassarmi e di riposare e le canne mi aiutavano”.
In quella stessa stanza, infine, Annunziata D’Errico ripose quella borsa verde il pomeriggio dell’omicidio, mentre risaliva in casa a cercare il cellulare per allertare i soccorsi: la borsa era “sul terzo gradino” delle scale che portano all’appartamento, ricorda con precisione chirurgica la donna, e il marito le suggerì di spostarla perché non fosse d’impaccio al personale del 118 che da lì a poco sarebbe arrivato. Ha un’importanza cruciale, quella borsa: De Nozza ritiene che Borracino, che il giorno dell’omicidio inspiegabilmente era stato a casa Stasi nel primo pomeriggio, l’avesse lasciata lì per poter avere “una scusa” (è esattamente questa l’espressione del PM) per tornare e consumare il delitto, con ciò convalidando la contestazione dell’aggravante della premeditazione (a fronte della tesi del delitto d’impeto, sostenuta dalla difesa).
Il pubblico ministero prosegue l’esame chiedendo a D’Errico di quel 9 novembre in cui Paolo perse la vita. La donna non si sottrae: la sua ricostruzione dei momenti concitati dell’omicidio è del tutto sovrapponibile alle dichiarazioni testimoniali rese dal marito Giuseppe lo scorso febbraio. Riferisce di essere scesa perché richiamata dal coniuge, di aver visto Paolo accasciarsi lentamente con le spalle al portone di ingresso, di avere immaginato che il figlio, ragazzo facilmente impressionabile, fosse rimasto vittima di una forte reazione emotiva per lo scoppio di alcuni petardi, di avere capito soltanto quando giunsero i sanitari che non erano innocui mortaretti quelli che il marito le aveva detto di aver sentito, ma colpi di pistola. Quei proiettili, esplosi a distanza ravvicinata a pochi centimetri dal capezzolo sinistro e alla clavicola destra, provocarono a Paolo lo shock emorragico che lo condusse poi alla morte, malgrado i lunghi tentativi di rianimazione.
La fase più critica dell’udienza è quella nella quale il pubblico ministero scava a fondo per ricostruire il movente dell’omicidio: De Nozza chiede alla madre di Stasi se si sia mai data una spiegazione sulla morte di Paolo, come mai non abbia avuto timore di mettere nei guai il marito tollerando custodia e confezionamento di sostanze stupefacenti nell’abitazione di famiglia, se esistesse un debito con Borracino e a quanto ammontasse, se quel debito possa essere plausibilmente ritenuto come la causa del delitto.
Annunziata D’Errico ripete sino allo sfinimento che tra lei, o Paolo, e Luigi Borracino non c’era alcun accordo, nemmeno tacito, che prevedesse la custodia (tecnicamente la detenzione) della sostanza stupefacente in casa Stasi in cambio di somme di denaro o di dosi gratuite. Che lei e Paolo la droga a Luigi la pagavano “quasi sempre”, che il debito, se così si poteva chiamare, consisteva in poche centinaia di euro (“mille, a voler esagerare”), che non c’è una ragione per la morte di Paolo, “e se c’è, dottore, è una ragione banalissima: io so soltanto che mio figlio è morto e che l’ha ucciso Luigi Borracino. Come lo so? Perché c’è una sentenza del Tribunale per i Minorenni che l’ha condannato”.
La domanda del presidente dell’Assise, che si insinua tra quelle del PM e del difensore di Candita, è diretta ed esplicita: la chiama “remunerazione”, il presidente Saso, l’utilità eventualmente pattuita da Paolo e dalla madre con Luigi per occultare la droga in casa, ma sul punto D’Errico non arretra di un millimetro. E quando il magistrato, sorpreso, scettico, incredulo, le chiede “ma allora che senso aveva tenere in casa tutto quello stupefacente?”, l’imputata-testimone ribadisce semplicemente che il figlio era un ragazzo disponibile e generoso, facendo intendere che fosse un atto di amicizia nei confronti di Luigi quella condotta che potenzialmente lo avrebbe esposto ad una condanna pesante, qualora – come le fa notare il pubblico ministero – le forze dell’ordine li avessero scoperti. Quel ragazzo più piccolo di lui, che secondo la prospettazione accusatoria era il “soggetto determinatore”, o comunque istigatore, dei reati connessi alla detenzione ai fini dello spaccio di sostanze stupefacenti, su Paolo aveva un forte ascendente. La madre si spinge a parlare di vera e propria manipolazione: Luigi era il soggetto dominante, Paolo ne subiva supinamente il temperamento.
Sul finire dell’udienza, nel corso dell’esame condotto dalla difesa di Candita, il PM ricostruisce la movimentazione sul conto corrente postale intestato alla vittima: De Nozza fa notare come in poco meno di un anno e mezzo la disponibilità, originariamente di 16mila euro, fosse irrisoria e chiede a cosa servisse tutto quel denaro prelevato dal conto di Paolo, se la situazione economica della famiglia fosse peggiorata e perché. Annunziata D’Errico prova a giustificarsi dicendo che a volte non aveva il denaro necessario per le spese correnti, che quei prelievi erano da considerarsi prestiti, che poi restituiva prelevando a sua volta dal proprio conto.
Ma quando la donna continua a negare che lei e Paolo dovessero a Borracino la cifra, dallo stesso indicata, di circa cinquemila euro, la voce del sostituto procuratore De Nozza, solitamente imperturbabile, sale di qualche ottava e forse persino si crepa sensibilmente mentre tuona: “Le chiedo l’ultimo sforzo di verità per suo figlio, per un ragazzo di diciannove anni che è sotto terra”. È la crepa da cui, parafrasando Cohen, entra la luce: perché è in quel momento che D’Errico si abbandona a qualche timida ammissione e dice che sì, è plausibile che la famiglia avesse accumulato debiti per via delle uscite fin troppo superiori alle entrate, e sì, è verosimile che in un momento di difficoltà finanziaria, “mentre mancavano i soldi per fare fronte al quotidiano”, come suggerisce il pubblico ministero, abbia chiesto a Borracino di continuare a consumare erba, accumulando nel frattempo quel debito che, nella ricostruzione della Procura, è il movente – per quanto assurdo appaia – dell’omicidio.
L’esame di Annunziata D’Errico si chiude con le due parole che per il PM “danno senso alla giornata”: in quel “è possibile”, offerto alla Corte quasi come un olocausto in risposta alle domande di De Nozza, c’è – secondo la Procura – la ragione della morte di Paolo Stasi. Appuntamento, per il resto, all’udienza del 15 ottobre.
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