di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine
Quando arrivò all’inizio degli anni Ottanta, giovanissimo, alla guida del Liceo Classico “Marzolla” di Brindisi, stupì per il suo modo di interfacciarsi con i ragazzi. Si respiravano ancora le scorie degli anni di piombo, gli studenti si fronteggiavano nelle assemblee sollevando il pugno sinistro o distendendo il palmo destro. Il “Marzolla” era una sorta di monumento cristalizzato sulla disciplina dettata dal rigore della presidenza di Cesare Carcaterra, proseguita con devozione dalle sorelle Cristofaro, prigioniero dell’antica struttura costruita durante il periodo fascista in corso Roma. Silvano Marseglia, poco più che trentenne, aprì le porte della presidenza, tranciò in un amen la distanza ancestrale tra studenti e prof, aprì un canale privilegiato con i ragazzi durante le manifestazioni di protesta. Fu, probabilmente, il primo dirigente scolastico 2.0 della provincia di Brindisi. E oggi lo ritroviamo, per la quinta volta, presidente dell’Associazione Europea degli insegnanti, fondata nel 1956 a Parigi.
Presidente, quell’esperienza al “Marzolla” ha dato un indirizzo preciso alla sua carriera.
“Arrivai in un momento molto difficile a Brindisi e riuscii a conquistare la simpatia degli studenti dialogando subito con loro. Non erano i tempi di oggi. E io devo dire che gli alunni che ho incontrato in quel periodo mi sono rimasti tutti affettuosi amici. Abbiamo dialogato e superato molte difficoltà: forse in alcuni momenti sono arrivato a scandalizzare i professori del Classico per questo mio atteggiamento. Però ho notato subito che aprendo un dialogo affettuoso con i ragazzi si riusciva a creare una forma di collaborazione. E non ho mai subìto atteggiamenti di mancanza di rispetto nei miei confronti. Penso che l’abilità di un docente stia nella sua capacità di sapersi rapportare con una realtà che cambia”.
Non ritiene che nel frattempo si sia andati un po’ oltre quello che lei definisce “affettuoso dialogo” e che, complici anche alcune trasmissioni tv costruite sulla conflittualità tra allievi e insegnanti, il ruolo di questi ultimi si sia pericolosamente ridimensionato?
“Sono convinto che, oggi come trent’anni fa, l’insegnante debba essere capace di farsi rispettare senza imporre, perché i ragazzi – e oggi ancor di più – sono nelle condizioni di valutare bene e in maniera quasi infallibile. Per cui se il professore si presenta dimostrando di avere la preparazione, di essere rispettoso nei loro confronti, loro lo apprezzano. E’ sempre stato questo il mio modo di operare. E comunque non bisogna togliere all’alunno la possibilità di esporre il suo pensiero, se lo fa correttamente, per arrivare al dialogo. Io sono molto fiducioso nei ragazzi: si tratta soltanto di saper trovare il punto d’incontro. Non credo che esista attualmente una particolare situazione di rottura, questa contrapposizione dei ragazzi nei confronti degli insegnanti, una opposizione quasi innata. Bisogna avere un dialogo con i ragazzi: cosa non sempre facile, ma bisogna imparare a farlo”.
In quest’ottica come vede gli insegnanti che dialogano sui social e sulle chat con i loro studenti? Non si corre il rischio di eliminare definitivamente qualsiasi barriera e di differenziazione dei ruoli?
“Se gli insegnanti mantengono un dialogo costruttivo io vedo questa opportunità in maniera positiva. Dipende da noi riuscire a costruire un rapporto corretto. Le chat possono essere un modo di guidare a distanza gli alunni, soprattutto da parte degli insegnanti più giovani che hanno maggiore padronanza di questi strumenti. E’ molto più difficile per quelli della vecchia generazione che non hanno digerito le innovazioni. Ma bisogna fare i conti con una società che cambia e se la scuola non riesce a mantenere i contatti lo studente si allontana. Se non troveranno il prof in chat, probabilmente cercheranno altrove i consigli”.
Lei è da oltre dieci anni al vertice degli insegnanti europei, ma è stato anche preside a Reggio Emilia e ha avuto la possibilità di confrontare le scuole del Nord con quelle del Sud. Siamo messi così male?
“Qui al sud gli insegnanti lavorano in modo molto generoso, danno veramente tutto: non stanno a badare troppo alle rivendicazioni sindacali, sono impegnati a tutto campo. E anche come preparazione abbiamo degli ottimi professori e dei validi dirigenti. Sa qual è la differenza con le scuole del nord? Che lì gli istituti sono accanto alle grandi aziende e i ragazzi sono più motivati, studiano sapendo che molto probabilmente avranno il loro posto di lavoro. I nostri studenti invece terminano la scuola e vanno a lavorare alle pompe di benzina”.
Proprio per questa difficoltà a trovare un’occupazione al Sud, non pensa che il progetto alternanza scuola-lavoro da queste parti rischia di essere solo una perdita di tempo?
“Bisogna preparare i giovani anche ad andarselo a cercare il lavoro. E’ necessario guardare anche a nuove professioni, molte volte l’errore è quello di cercare il lavoro e l’azienda alla porta accanto alla scuola. Se invece si comincia a ragionare in un’ottica più estesa, le possibilità di occupazione aumentano. L’alternanza scuola-lavoro è stata spesso criticata, ma nessuno Stato europeo ha un’impostazione come quella dell’Italia, solo che mancano gli strumenti di applicazione, bisogna lavorare molto per mettere le scuole e le aziende nella condizione di rispondere a quello che la legge dice. Sarebbe opportuno impegnarsi anche in un’alternanza scuola-lavoro a livello internazionale. Stiamo realizzando a Molfetta con un istituto superiore, con la collaborazione della nostra associazione, un progetto insieme a una scuola di Copenaghen, e poi in contatto con altrettante aziende situate nelle due città. C’è uno scambio: gli studenti svedesi vengono a lavorare qui e viceversa”.
Siamo così lontani dal modello di scuola europea?
“So che qualcuno potrebbe scandalizzarsi, ma sa qual è il paese che sotto il profilo dell’istruzione sta compiendo passi da gigante? La Romania. Sono attentissimi a sfruttare tutte le opportunità e le sovvenzioni che offre l’Europa, realizzando decine di progetti già finanziati. Ma dimostrano di essere avanti anche nell’individuazione dei dirigenti scolastici. Da noi chi ha superato il concorso ed è divenuto preside, mantiene il suo status per il resto della carriera. Invece in Romania i dirigenti scolastici ogni tre anni sono chiamati a ripetere il concorso e ha rendere conto di ciò che hanno fatto e delle idee che hanno sviluppato. In questo modo non restano appiattiti sull’obiettivo raggiunto vita natural durante, ma si sentono messi in discussione e devono necessariamente provare di aver lavorato bene. Altrimenti tornano a fare gli insegnanti”.
Si parla spesso dei Paesi del nord’Europa come modello di un’organizzazione scolastica moderna.
“In Svezia ho notato una grande apertura della scuola a tutto campo. I ragazzi entrano in classe la mattina ed escono alle sei del pomeriggio. C’è una mensa interna, i compiti li svolgono in classe e li correggono insieme agli insegnanti che sono a disposizione tutto il giorno. Il venerdì i ragazzi escono prima da scuola e quindi hanno il pomeriggio e poi ancora il sabato e la domenica liberi, senza compiti da svolgere, tempo da trascorrere con la famiglia e gli amici. In Italia non siamo stati capaci di realizzare le mense all’interno delle scuole, cose che in altri Paesi funzionano a meraviglia. Io mi auguro che si possa arrivare anche a questo. Però non significa che la nostra scuola non va bene, ci sarebbe da sfruttare meglio le potenzialità che abbiamo”.
In Svezia la scuola inizia al mattino e chiude nel tardo pomeriggio. Come la vede invece l’idea di spostare in avanti la prima campanella, facendo entrare i ragazzi alle 10 del mattino, come proposto recentemente proprio qui a Brindisi?
“Io credo che il ragazzo si debba abituare all’orario, lo vedo un falso problema quello del sonno. Inoltre può essere pericoloso sperimentare qualsiasi tipo di innovazione se non si è preparati ad affrontarne le conseguenze: si corre il rischio di creare degli scompensi. I cambiamenti vanno visti con molta attenzione. Se i genitori escono da casa alle otto, il ragazzo deve abituarsi a quelli che sono i suoi impegni, i suoi doveri e i suoi obblighi”.
La nuova generazione è quella degli smartphone e dei social network: la scuola sta tentando di adeguarsi, ma non ritiene che un uso eccessivo delle tecnologie possa falsare il processo di apprendimento, allontanando poi i ragazzi dai libri, dalle letture e dalla cultura?
“A mio parere non bisogna esagerare, altrimenti i ragazzi non saranno più nelle condizioni di fare una ricerca cartacea o avere un libro da leggere. La tecnologia va tenuta presente perché essa rappresenta il futuro, non c’è dubbio. Ma io credo, senza sbilanciarsi molto, che essa vada affiancata al cartaceo. Mi dispiace che questo mi porta a dissentire da alcune operazioni che vengono atuate in scuole della provincia, ma io non sono per azzardare molto. L’informatica deve affiancare non sostituire. Indubbiamente bisogna guardare con attenzione ad essa, come alla robotica: rappresentano il futuro. Però senza fare voli pindarici e creare disorientamento. Il libro di carta non può essere surrogato”.