La morte di Mirko Conserva liquidata con due cartelli e uno strampalato esperimento

L’editoriale del direttore Gianmarco Di Napoli per il numero 390 de Il7Magazine
I genitori di Mirko Conserva avevano un solo desiderio: che il loro dolore straziante, l’aver perso un figlio di vent’anni, fosse utile almeno a salvare altre vite. Per questo non hanno mai alzato la voce, non hanno accusato nessuno, hanno evitato persino di formalizzare una denuncia in procura (passo che compie ormai, indiscriminatamente chiunque abbia subìto un lutto) contro chi avrebbe dovuto garantire la sicurezza delle strade cittadine. Loro non hanno mai manifestato rabbia, pur essendo certi che se quel viale che taglia il rione Sant’Elia, Mirko non sarebbe finito fuori strada mentre, alle quattro di quella domenica mattina, andava a lavorare per una ditta di pulizie all’ospedale Perrino.
I genitori di Mirko hanno scelto di affidarsi alla magistratura e ai carabinieri che quella maledetta mattina effettuarono i rilievi. Sperando anche nel senso di responsabilità di chi, dopo il tragico incidente, da Palazzo di Città avrebbe dovuto assumere le contromisure necessarie per far sì che quella strada in cui il loro ragazzo è morto non facesse altre vittime. Questo solo volevano.
E invece in un solo giorno hanno incassato un dolore doppio: la procura ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta penali sulle eventuali responsabilità nell’incidente e in più la strada in cui Mirko ha perso la vita, schiantandosi con la sua moto, è ritornata esattamente com’era: sono state tolte le transenne, le radici degli alberi di pino (possibili concause dell’incidente) continuano a crescere sotto l’asfalto rendendolo irregolare, pericolosissimo. Unico cambiamento: la collocazione di due segnali, uno che indica il limite massimo di velocità a 30 chilometri orari, andatura che sul viale non rispettano neanche le signore che a piedi portano i sacchetti della spesa, l’altro che avvisa della presenza di cunette.
Quindi, riepilogando: il Comune riconosce sì la pericolosità della strada, perché colloca segnali prima inesistenti, ma non effettua alcun intervento per metterla in sicurezza, affidando la prevenzione di altre tragedie a due cartelli.
Ora, noi non siamo assolutamente nelle condizioni, né ci compete, di valutare se per la morte di Mirko Conserva esistano elementi di responsabilità personale tali da poter giustificare un processo per omicidio colposo. Si tratta di un compito di esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria. E si tratta, per inciso, di un percorso giudiziale (a prescindere dall’esito dell’inchiesta penale) che non impedirà alla famiglia di Mirko di chiamare il Comune di Brindisi in giudizio davanti al Tribunale civile e chiedere il risarcimento del danno, ma che sicuramente per i genitori del ragazzo in questo momento non rappresenta una priorità.
Dunque non entriamo nel merito delle valutazioni fatte dalla procura e che dovranno essere vagliate dal gip, il quale dovrà vagliare l’opposizione all’archiviazione che di certo sarà formalizzata dalla famiglia della vittima.
Ciò che ci lascia perplessi è il metodo utilizzato per giungere a queste conclusioni. La richiesta di archiviazione è basata esclusivamente sugli esiti di un “esperimento giudiziale”: il pm ha incaricato un ingegnere di effettuare una simulazione su quella strada per verificare se l’asfalto sconnesso possa davvero aver causato l’incidente. Ma un esperimento giudiziale, per essere considerato attendibile, dovrebbe essere (da definizione) l’osservazione di un accadimento attraverso la riproduzione della situazione di fatto e la ripetizione simulata delle sue modalità di svolgimento.
Per riprodurre le condizioni dell’incidente di Mirko, un carabiniere esperto in guida motociclistica di velocità è stato messo in sella a uno scooter che aveva in comune con quello utilizzato da Mirko solo il nome, T-Max. Si trattava in realtà di una motocicletta immatricolata 20 anni dopo quella che guidava il ragazzo morto: costruita nel 2024 quella usata nei test, nel 2004 quella di Conserva. Ora noi sappiamo quanto da un anno all’altro la tecnologia possa affinarsi e quanto invece possa ritenersi quasi un pezzo da museo una moto vecchia di vent’anni, con decine di migliaia di chilometri, e quanto possano essere efficaci le sospensioni e il sistema frenante rispetto a un modello nuovo e moderno.
Inoltre l’esperimento giudiziale è stato effettuato in piena mattina, con la strada che era stata ben ripulita da aghi di pino e rifiuti che sembrava un circuito di formula uno. Mirko invece si schiantò alle quattro, quando era ancora buio, su un viale che sembrava il sottobosco di una pineta (e chi scrive, essendo andato sul posto quel giorno se lo ricorda bene e ne conserva pure le immagini).
Quindi quale attendibilità può avere la simulazione effettuata dal perito? A cosa è servito effettuarla in questo modo? E come può essere considerata unico elemento per valutare una vicenda giudiziaria così drammatica e complessa? L’esperimento giudiziale ha solo chiarito che su quella strada un pilota esperto di moto, con uno scooter di ultima generazione, con la luce del sole e l’asfalto pulito non sarebbe finito fuori strada.
Ma non può escludere che un ragazzo di vent’anni, su uno scooter scalcinato, di notte e con l’asfalto coperto di aghi di pino, non sia potuto finire fuori strada a causa delle radici che creano cunette pericolose, come certificato dai segnali apposti tardivamente dal Comune.
Come si diceva, non spetta a noi giungere a conclusioni sulle responsabilità penali, ma invitare a riflettere sui metodi di accertamento utilizzati sì.
E dunque, oltre a chiederci se quella perizia così lontana dall’evento reale possa essere da sola considerata determinante per escludere eventuali responsabilità penali nella morte di Mirko, ci domandiamo se oltre a piantare due paletti con i cartelli stradali, il Comune di Brindisi abbia nel frattempo pianificato un intervento rapido e concreto per mettere in sicurezza quella strada ed evitare nuove lapidi.
Oppure se anche il Comune abbia già archiviato il caso.