La professione come missione: Giusy Galeone, da poco in pensione, sarà il medico dei bisognosi

Di Marina Poci per il numero 368 de Il7 Magazine
Il primo contatto con la dottoressa Giuseppa Galeone, per tutti Giusy, per quasi quarantacinque anni medico di Medicina Generale a Mesagne, è telefonico: risponde prima con circospezione, poi si apre alla cortesia, ma nel tono si avverte un che di frettoloso, un’urgenza di interrompere il colloquio, perché presa da altro. “Sono a casa di una paziente, la sto visitando: possiamo sentirci tra qualche ora?”. Ritentiamo nel pomeriggio, ma la dottoressa è ancora occupata: “Sa, sono nello studio di una collega a darle una mano perché oggi non c’è la sua infermiera…”, spiega con grande semplicità. Insomma, nonostante da un paio di mesi sia una bella pensionata che potrebbe godersi la vita e recuperare quanto ha lasciato indietro per dedicarsi alla professione, Galeone di fare il medico non ha smesso nemmeno per un giorno. E continuerà ancora, a partire da sabato 21 settembre, nella sede della Casa di Zaccheo, l’organismo di volontariato attivo nella città messapica nell’assistenza alle fasce più fragili della popolazione, che alle originarie attività di mensa e distribuzione di pasti, affianca iniziative di sostegno psicologico, burocratico e lavorativo (è di poche settimane fa l’attivazione di un laboratorio di sartoria solidale, finanziato dal Dicastero Vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale, in collaborazione con l’Arcivescovo Mons. Giovanni Intini e la Caritas Diocesana, con lo scopo di offrire opportunità di formazione professionale a persone in difficoltà).
Proprio presso la Casa di Zaccheo, sorta anni fa da un’idea di don Pietro De Punzio, vicario foraneo e responsabile del progetto, la dottoressa Galeone ha trasferito gli arredi e le attrezzature del suo studio medico per aprire l’ambulatorio “San Giuseppe Moscati”, iniziativa di medicina sociale nata con l’intento di garantire un accesso agevolato alle cure per le persone sole, gli stranieri e le famiglie meno abbienti. In totale spirito di gratuità, l’ambulatorio sarà aperto, per il momento, ogni mercoledì dalle ore 9.00 alle ore 11.00: “Una volta che capiremo qual è l’afflusso, potremo pensare di dedicare un secondo giorno e di chiedere ad altri miei colleghi di unirsi”, chiarisce la dottoressa, che – da “medico cristiano”, quale si definisce – non è nuova a iniziative di volontariato. Per anni, sino allo scoppio della pandemia da Covid-19, con una onlus avente sede nelle Marche ha svolto missioni in India, insieme a colleghi e pazienti, fondando un orfanotrofio, una scuola e una residenza per gli anziani e portando agli ospiti di quelle strutture, che vivevano per lo più per strada, l’esempio di una professione che, nel quotidiano incontro con la povertà e l’abbandono, si è fatta missione nel senso più autentico del termine.
Come nasce l’idea dell’ambulatorio “San Giuseppe Moscati”?
“Sono in pensione da poco più di tre mesi, ma sono ancora a tutti gli effetti un medico: la mia voglia di aiutare chi soffre non è finita e credo che non finirà mai. Ne ho parlato a don Pietro De Punzio e lui ha accolto con entusiasmo la proposta di aprire la Casa di Zaccheo anche ad un’attività di assistenza medica, che in effetti mancava. In pochissimo tempo dal dire siamo passati al fare”.
L’ambulatorio non è ancora aperto, ma a Mesagne c’è già molta attesa.
“Sì, abbiamo ricevuto moltissimi messaggi di appoggio. Tanti ex pazienti mi hanno manifestato la volontà di venire a trovarmi. Naturalmente ho chiarito che questo ambulatorio non dovrà essere considerato una succursale del mio studio e che la priorità sarà assistere le persone più fragili. Non voglio sovrappormi al lavoro dei colleghi, ma – piuttosto – sollevarli quando si presentano casi particolarmente complicati da seguire. Sa, il medico di base adesso ha tante incombenze burocratiche, a volte è veramente difficile riuscire a stare dietro a tutto”.
Com’è cambiata la professione di medico di base da quando lei ha iniziato ad oggi?
“Moltissimo. Una volta non avevamo da sbrigare tutte le scartoffie che ci impongono adesso. Non voglio demonizzare il cambiamento, ma è innegabile che la burocrazia abbia diminuito la possibilità di ascolto del paziente, che invece per i medici degli anni passati aveva la precedenza su tutto”.
Non a caso si chiamavano medici di famiglia: c’era forse una componente di fiducia e di affidamento che si è un po’ persa con i tempi.
“Esattamente, non possiamo negare che il rapporto con il paziente sia un po’ penalizzato dal sistema attuale. Però voglio anche precisare che sta a noi non farci schiacciare dagli impegni burocratici. E sono convinta che con un po’ di sacrificio sia possibile. Le dico di più: qualche tempo fa c’era stato il tentativo, poi fallito, di introdurre nel corso di laurea in Medicina un esame sulle tecniche di comunicazione. Il paziente ha bisogno di essere ascoltato, di essere guardato negli occhi quando racconta le sue sofferenze, di ricevere una stretta di mano. Ad alcuni medici viene naturale, ad altri no. Allora perché non prevedere di insegnarglielo?”.
L’emergenza sanitaria da Covid-19 è stata un’esperienza collettiva molto potente: in quel frangente il medico di Medicina Generale è stato il primo avamposto della cura. Che ricordo ha di quei mesi?
“A differenza della popolazione, noi medici non abbiamo vissuto ciò per cui tutti ricorderanno la pandemia, cioè l’isolamento. Noi abbiamo continuato ad aprire i nostri ambulatori per ricevere i pazienti e, quando le circostanze lo esigevano, sostenuti dalla Protezione Civile che ci forniva camici e mascherine, abbiamo continuato con le visite domiciliari, facendo del nostro meglio per non far sentire nessuno abbandonato a se stesso. Ma i segni di quella solitudine obbligata noi medici li vediamo ancora adesso, soprattutto negli anziani e nelle persone che già avevano qualche difficoltà psicologica”.
Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le aggressioni al personale sanitario: come valuta questo fenomeno, a cosa lo attribuisce e in che modo secondo lei occorre intervenire?
“Non possiamo lavorare con la paura addosso, lo Stato deve aiutarci. E non mi riferisco soltanto alla protezione sul luogo di lavoro, per esempio con le guardie giurate, utili specialmente nelle sedi di Guardia Medica. Lo Stato deve assumere altro personale: la maggior parte delle aggressioni avvengono perché la gente è esasperata dalle attese nei reparti di Pronto Soccorso e dalle attese per le visite specialistiche e gli esami strumentali. Bisogna far capire alla gente che non è danneggiando i medici che si risolvono i problemi della sanità. Noi siamo una pedina esattamente come lo sono i pazienti, è con le istituzioni che bisogna dialogare. Se ci picchiate tutti, chi vi curerà?”.
Se ripensa al giuramento di Ippocrate, che lei ha prestato da giovanissima, le viene in mente qualcosa che andrebbe corretto o quanto meno adeguato ai tempi?
“Questo sta già accadendo, perché la medicina va sempre avanti. Però c’è un aspetto che mi sembra poco considerato: bisogna lavorare per garantire il benessere fisico e psicologico dei medici. Facciamo un lavoro duro, le istituzioni devono impegnarsi per non complicarcelo ulteriormente”.
A un giovane studente di Medicina quale consiglio sente di dare?
“Gli direi che quella che sta per intraprendere non è solo una professione, ma una vera e propria missione e che la cura del corpo del paziente, se non è accompagnata dalla cura della sua anima, serve a poco”.
Cosa porterà delle sue missioni indiane nell’esperienza del nuovo ambulatorio mesagnese?
“Per undici anni sono stata nel Tamil Nadu con gli amici della onlus, poi la pandemia ci ha impedito di essere presenti fisicamente, anche se continuiamo a sostenere economicamente le iniziative. Non abbandoneremo mai le persone a cui abbiamo offerto una nuova occasione di vita. Personalmente ero molto vicina agli anziani e ai bambini: non era facile conquistare la loro fiducia, ma non mi sono mai scoraggiata davanti alle loro iniziali diffidenze. Per me era importante essere utile. Ecco, a Mesagne porterò questo principio: mai perdersi d’animo, mai abbandonare chi ha bisogno, perché tutti gli esseri umani meritano le stesse opportunità di cura”.
Nessuno deve restare indietro.
“Nessuno. Lo dice il Vangelo”.
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