Maglie, 14enne stuprata in stazione: “Povertà educativa favorisce cultura della violenza”

Di Marina Poci per il numero 365 de Il7 Magazine
Sarebbe stata abusata nei bagni della stazione di Maglie, dove era stata accompagnata poco prima dalla madre a cui aveva detto che si sarebbe incontrata con il fidanzatino. Ma lui, un 15enne forse nato (o residente) nel Brindisino, si è presentato con un amico di 14 anni insieme al quale l’avrebbe stuprata: doveva essere un pomeriggio di divertimento, quello del 28 luglio scorso, per una 14enne del basso Salento ansiosa di trascorrere del tempo con il suo ragazzo dopo gli accordi presi su WhatsApp. Quell’occasione di svago si è trasformata, invece, nella peggiore delle esperienze: la piccola, dopo il rapporto sessuale a cui sarebbe stata costretta, ha chiamato in lacrime la madre, chiedendole di portarla in ospedale. La 14enne si sarebbe presentata nel nosocomio con una copiosa perdita di sangue dalle parti intime, legata alla perdita della verginità. Stando a quanto riferito, al Pronto Soccorso di Scorrano, dove madre e figlia si sono recate immediatamente, il personale sanitario avrebbe riscontrato i segni inequivocabili di un rapporto sessuale violento.
Ulteriori analisi, a cura della genetista Giacoma Mongelli, saranno eseguite sui tamponi di materiale genetico prelevati alla ragazzina per verificarne la compatibilità con il dna degli indagati. Ai presunti stupratori sono stati sequestrati i telefoni cellulari per ricostruire i rapporti dei due con la vittima, mentre sono al vaglio degli inquirenti le immagini delle telecamere di videosorveglianza esterne alla stazione, che all’interno ne è invece sprovvista. La Procura della Repubblica per i Minorenni di Lecce ha quindi aperto un’inchiesta, coordinata dalla Procuratrice Simona Filoni e dalla sostituta Paola Guglielmi, con l’ipotesi di reato di violenza sessuale aggravata in concorso, nei confronti dei due ragazzini.
“I motivi per cui periodicamente registriamo episodi del genere sono sempre gli stessi: la mancanza di educazione emotiva, sentimentale e sessuale. Lo stupro è la punta dell’iceberg, la verità è che siamo pervasi da una cultura della violenza che si manifesta in molti modi diversi e non trova un contrasto in azioni concrete all’interno della società e delle sue maggiori istituzioni. Istituzioni che dovrebbero lavorare in maniera combinata per favorire nei ragazzi, sin dall’età più giovane, l’individuazione del sé, l’identità personale fatta di valori e principi solidi. È nel momento in cui non riescono a individuarsi che si incuneano modelli perversi e devianti di comportamento, soprattutto negli adolescenti, che sono più facilmente plasmabili”: l’analisi della dottoressa Maria Rita Greco è disarmante nella sua lucida semplicità. Psicologa e psicoterapeuta, da qualche mese in pensione dal suo incarico di dirigente psicologa dell’unità operativa semplice dipartimentale della ASL di Brindisi, in cui per decenni ha rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che hanno avuto a che fare con questioni attinenti alla salute mentale, Greco commenta l’ultima vicenda di presunta violenza sessuale ai danni della 14enne salentina, che ha per protagonisti giovanissimi, e non si esime, con l’onestà intellettuale che la contraddistingue, dal rintracciare le responsabilità collettive delle singole condotte.
“Vuoto” è l’espressione che più spesso ricorre nelle sue parole quando le viene chiesto di rintracciare le cause delle devianze, “sinergia” è quella che più spesso utilizza per proporre soluzioni al fenomeno: “Non è l’intervento della singola istituzione ad essere risolutivo, ma l’unione di tutte. Se la famiglia, la scuola, le associazioni, la Procura, la parrocchia, gli enti che offrono assistenza sanitaria non lavorano sinergicamente per raggiungere l’obiettivo di colmare il vuoto, difficilmente invertiremo la rotta. È la povertà educativa che favorisce la cultura della violenza”.
Per spiegare il senso della sinergia che dovrebbe essere messa in atto ai più vari livelli istituzionali, Maria Rita Greco scomoda un concetto utilizzato nell’ambito sindacale: spiega che servirebbero dei veri e propri “tavoli di concertazione”, permanenti, simultanei, orientati alla formazione di una coscienza morale adeguata alla introiezione delle regole; parla di genitori confusi, che fanno fatica a fornire ai figli gli strumenti per resistere alla fascinazione perversa di modelli devianti; incoraggia percorsi di “riparazione del danno” in chi, a qualsiasi età, si rende responsabile di comportamenti violenti; suggerisce di lavorare sulla prevenzione, fornendo alle vittime gli strumenti emotivi e culturali per individuare soggetti potenzialmente abusanti.
“Senza voler entrare nella vicenda specifica, della quale sappiamo pochissimo, è importante che un ragazzino riconosciuto autore di un comportamento violento, dal bullismo allo stupro, compia un viaggio di contatto con la sofferenza altrui: il recupero avviene non soltanto con un programma di psicoterapia che stimoli la riflessione su quanto fatto, ma anche attraverso esperienze, ad esempio il volontariato, che lo avvicinino al dolore, perché possa sviluppare quell’atteggiamento empatico che è mancato durante la commissione dell’atto violento. Il vuoto affettivo, se non correttamente inquadrato, viene colmato con le maschere di prepotenza, conflittualità e aggressività che tutti i giorni osserviamo in tutte le età, utilizzate per darsi un’identità che non si riesce a costruire in altro modo”, precisa Greco.
Il percorso di riparazione dell’abusante può essere speculare a quello di elaborazione della vittima: “Per definizione, in psicologia ogni trauma trova il suo superamento laddove si integra l’azione che l’ha procurato. Ma è un approdo a cui si arriva dopo moltissimo lavoro e non è detto che il perdono, in senso laico naturalmente, ne faccia necessariamente parte. Piuttosto, per quello che riguarda specificamente le vittime, ritengo che il percorso terapeutico debba comprendere necessariamente il fornire strumenti di protezione. Riuscire a proteggersi, nei limiti del possibile, presuppone essere stati educati a riconoscere i pericoli. È esattamente il concetto che sta alla base della sicurezza sugli ambienti di lavoro: più conosco i rischi, più sono in grado di approntare strumenti in grado di proteggermi”, conclude Greco.
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