Matilde Chionna: in 500 a Latiano per ricordarla a un anno dalla morte

Di Marina Poci per il numero 392 de Il7 Magazine
C’è una distinzione fondamentale nella classificazione che gli astrofisici adottano per le stelle o, meglio, per le esplosioni stellari: quella tra nova e supernova. La nova è una esplosione dovuta ad un grande accumulo di gas sulla superficie, in seguito alla quale l’astro diventa più luminoso per poi tornare gradualmente allo stadio originale. La supernova invece è un’esplosione che annienta completamente la stella, rappresentando l’ultimo atto, distruttivo e spettacolare, del suo ciclo evolutivo. Durante l’esplosione di supernova, in un tempo molto breve viene liberata un’energia tale da rendere la stella più luminosa di una intera galassia. In altre parole: la supernova brilla di più, ma molto meno a lungo. Anzi, brilla di più proprio perché deve concentrare in un tempo più ridotto l’intera energia luminosa che si sprigiona a seguito dell’esplosione. La stessa cosa accade alle persone: ci sono le nove e ci sono le supernove. Matilde Chionna era una supernova. E Latiano, a giudicare dalla partecipazione alla fiaccolata che la ricorda nell’anniversario della morte, la luce e l’energia di questa sedicenne precocemente tornata al cielo a cui apparteneva deve averle comprese bene.
Nel pomeriggio del 25 febbraio quella latianese è una comunità divisa tra il giubilo e lo strazio: nelle stesse ore in cui si apprende che, per decisione di Papa Francesco, il concittadino Bartolo Longo (noto in tutto il mondo per la fondazione a Pompei del Santuario dedicato alla Madonna del Rosario) sarà santo, una folla lenta, composta e rispettosa fende il paese spostandosi dal cimitero alla parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, dove, più o meno all’orario in cui la sua luce si spegneva, a Matilde verrà intitolato l’oratorio. Lo scampanio festoso di mezzogiorno, che ha salutato il decreto papale di canonizzazione del fedele laico latianese, stride con la dolente cappa di silenzio che avvolge le oltre cinquecento persone che, accompagnate da una pioggia incerta e sottile, depongono fiori, palloncini e biglietti sotto la lapide di Matilde, studentessa e pallavolista, amata figlia, sorella e amica, il cui sorriso limpido buca il marmo chiaro e freddo con tutto il calore dei suoi 16 anni per sempre.
Ad un anno da quella serata tragica in cui la giovane perse la vita in un incidente stradale sulla Mesagne – Torre Santa Susanna mentre rientrava insieme al fidanzato ventenne Matteo Buccoliero dal match di pallavolo tra Oria, in cui giocava, e Monopoli, sotto la stessa pioggia che timidamente bagnò il funerale, Latiano è ancora tutta qui: ad abbracciare i genitori Riccardo e Adelaide e la sorella minore Alba, a testimoniare, in uguale misura, l’amore e il dolore, a rendere Matilde eterna nella memoria di chi le ha voluto bene e ne ha apprezzato l’effervescenza e il senso di responsabilità, la curiosità e l’impegno, l’attitudine all’inclusione e la capacità di essere guida tanto nel gioco quanto negli affetti.
La chiesa non contiene la folla: i banchi sono tutti occupati, c’è gente in piedi ai lati delle navate e in fondo, altre persone restano assiepate sul sagrato malgrado il freddo. Una partecipazione di popolo straordinaria, forse unica, che restituisce ai presenti il senso del solco profondo che Matilde ha impresso in ciascuno attraversandone la strada con il passo leggero e il volo radente della sua intelligenza spiccata.
Lo sottolinea il parroco, don Franco Marchese, che esordisce nell’omelia evidenziando il miracolo compiuto da Matilde nel radunare così tanta gente in suo ricordo e rallegrandosi per la presenza massiccia di giovani, definita dal sacerdote “un miracolo nel miracolo”: “Vedervi così numerosi mi fa riflettere su quanto sia grande e potente l’amore, dono di Dio: noi amiamo Matilde attraverso Dio e Dio ama Matilde attraverso l’amore che noi le diamo. Siamo stati al cimitero a trovare una ragazza morta, ma qui, in questa chiesa, la celebriamo viva nella onnipotenza di Dio, il cui amore è più forte della morte. Matilde vive nella vita del risorto. Perciò, quando pensate a lei, pensate a qualcosa di grande e incomprensibile, qualcosa che supera la conoscenza umana, qualcosa di infinito a cui lei è arrivata prima di noi”, dice all’assemblea raccolta nel silenzio impenetrabile del vuoto.
Un silenzio che dura per tutta la funzione e poi improvvisamente si frange quando, a fine messa, è la mamma di Matilde a prendere la parola dall’ambone accanto al quale campeggia l’immagine felice della sua ragazza. Ascoltarla equivale a sprofondarle accanto nella voragine interiore che la divora, a toccare a mani nude il grido di dolore che le dimora dentro da un anno a questa parte, a distinguere, una per una, tutte le grinze che il suo cuore ha preso da quando una telefonata le ha deviato in maniera irrimediabile il corso della vita.
La voce di Adelaide Liso è un soffio sottile tagliato dal pianto, mentre non rinuncia a raccontare ancora la sua Matilde: i risultati brillanti negli studi, il coro scolastico, l’atletica, le amicizie, la pallavolo che, dice “l’ha forgiata alla vita, a muso duro”, perché “le ha fatto capire che nella vita si vince, ma si perde anche ed è proprio dalle sconfitte che si esce vittoriosi”, “le ha insegnato a rispettare sino in fondo gli impegni presi e ad accettare le sfide vincendo le paure”. Ripete che Matilde l’ha resa una mamma fiera e si dice certa che lo avrebbe fatto ancora mille volte (anzi, paradossalmente riesce a farlo anche adesso, “pur non essendo più presente tra noi”). “Matilde vive e dà vita”, conclude la madre, prima di lasciare la parola alle amiche e agli amici, e alle compagne di squadra. Si avvicendano al microfono e ognuno di loro racconta un pezzo di lei: “I fiori che ti avremmo regalato per festeggiare i tuoi traguardi siamo costrette a lasciarteli sotto la lapide”, dicono sostenendosi a vicenda e ricordando il segno “indelebile” che “inconsapevolmente” ha lasciato.
C’è chi continua a vederla “nella forza di mamma Adelaide, nella delicatezza di papà Riccardo e nella grinta di Alba” e, promettendole che un giorno tornerà ad essere la sua capitana, è pronta a giurare che, testarda e indipendente com’era, la giovane e talentuosa pallavolista starà facendo impazzire qualche altro allenatore chissà dove; c’è chi, rifiutandosi di pensarla in un altro mondo, preferisce immaginarla fuori per motivi di studio, oppure tesserata in un altro club; c’è chi di Matilde continua a sentire la presenza viva (“So che il tuo spirito mi accarezza senza far rumore”); c’è infine chi, ancora incredulo davanti al mistero della sua morte, la ringrazia (“per avermi fatto capire con una lezione tremenda, ma efficace, il significato della parola vita”). È lo stesso ragazzo che, forse fantasticando che le sarebbe piaciuta, cita la canzone sanremese di Lucio Corsi, “Volevo essere un duro”, e conclude con un emozionante “Sarai sempre il mio “troppo sole negli occhiali”…”.
Poi l’assemblea si scioglie e tutti, con la stessa compostezza con cui vi sono entrati, escono dalla chiesa per avvicinarsi all’entrata dell’oratorio a scoprire la targa con l’intitolazione. Sarà un luogo, come suggerisce don Franco, “pensato come la casa in cui Matilde possa accogliere gli amici”, anche se in una forma diversa dalla presenza fisica.
L’ultimo gesto della mamma Adelaide, prima che la folla si disperda, è un bacio al cielo verso la supernova che ha messo al mondo e poi ha dovuto lasciare andare in una sera di febbraio di un anno fa: mentre Latiano torna alla sua quotidianità, Matilde abita un tempo che non scorre e riposa nell’infinito.