Morì precipitando da 11 metri mentre riparava un capannone: chiesto il processo per due persone

Di Marina Poci per il numero 375 de Il7 Magazine
Aveva appena quarant’anni, era sposato e padre di due figli, giocava come centrocampista nella Virtus Calcio Mesagne, tanto che qualcuno sui social l’aveva definito “l’operaio-calciatore”: Giuseppe Petraglia, brindisino, da pochi giorni dipendente della “T & E Multiservice srl”, morì lo scorso 1 marzo precipitando per undici metri e mezzo mentre stava eseguendo lavori di manutenzione in un capannone della zona industriale di Brindisi per conto della società cooperativa “CDM Trasporti”, proprietaria dell’immobile.
Ora, in relazione a quella morte, la Procura della Repubblica messapica, nella persona del pubblico ministero Pierpaolo Montinaro, titolare dell’inchiesta, ha chiesto il rinvio a giudizio per due persone: Antonio Iaia, legale rappresentante della “T & E”, datore di lavoro, Diletta Carlucci, 35 anni, legale rappresentante della “CDM Trasporti”, committente dei lavori. I due, “in cooperazione tra loro, anche con condotte indipendenti”, secondo la prospettazione accusatoria sarebbero responsabili dell’omicidio colposo di Petraglia, causato da negligenza e imprudenza, nonché dall’inosservanza delle norme che disciplinano la sicurezza e la salute sugli ambienti di lavoro.
Sulla richiesta della Procura si pronuncerà il Gup Simone Orazio nell’udienza preliminare fissata per il prossimo 19 novembre: saranno ascoltati gli avvocati difensori dei due imputati, nonché i legali delle persone offese, i famigliari della vittima, che avranno la possibilità, qualora lo ritengano, di avanzare domanda di costituzione di parte civile, per essere presenti attivamente nel processo e, in caso di eventuale condanna, ottenere un risarcimento.
Nel capo di imputazione formulato dalla Procura si legge che Giuseppe Petraglia stava eseguendo la sua mansione lavorativa “senza essere assicurato nella ritenzione, mediante idonea fune di guida da allestire lungo la trave, provvista di appositi fori, realizzata su un apposito giunto di dilatazione termica, congiungente i due capannoni adiacenti e facenti parte del compendio immobiliare, mentre la fune di trattenuta, a sua volta, avrebbe dovuto agganciarsi al moncone della cintura di sicurezza rilevata addosso al lavoratore”.
L’operaio precipitò da un’altezza tale che quel volo, secondo la Procura evitabile se ci si fosse attenuti alle prescrizioni di cui al Testo Unico 81/08, gli provocò “estese lesioni cranio-encefaliche” e fratture delle costole e del bacino, determinandone la morte in pochi istanti: lo certificò il medico legale Domenico Urso, che svolse l’autopsia, lo riferirono i colleghi di Petraglia, che chiamarono immediatamente i soccorsi, il cui intervento si rivelò però vano.
Le condotte contestate ai due imputati sono ovviamente differenti: il datore di lavoro Antonio Iaia risponde di avere mandato “il lavoratore ad eseguire lavori sul lastrico solare senza le dovute precauzioni di prevenzione e protezione”, mentre a Diletta Carlucci, la cui posizione potrebbe forse apparire più delicata, è contestato per un verso di “non aver verificato l’idoneità tecnico-professionale dell’azienda a cui erano state affidate le lavorazioni e la valutazione del rischio effettuata per l’esecuzione delle effettive lavorazioni da svolgere” e per altro verso di “aver messo a disposizione del datore di lavoro un apparecchio di sollevamento per accedere ai luoghi da cui è precipitato l’operaio, senza adottare misure di prevenzione e protezione dai rischi di caduta dall’alto”.
E a proposito di caduta dall’alto, lo scorso maggio, a poche settimane dall’incidente mortale che coinvolse Petraglia, Il7 Magazine ebbe modo di intervistare il dottor Nicola Dipalma, medico del lavoro, dall’ottobre 2021 direttore del Servizio di Prevenzione e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro (SPESAL) di ASL Brindisi, il quale, nel commentare i dati allarmanti degli infortuni sul lavoro in territorio brindisino (se ne erano verificati tre in pochi giorni) accennò proprio a tale causa: “Da circa trent’anni sappiamo che le cause degli infortuni mortali sono sempre le stesse”, spiegò Dipalma. “In tutto essenzialmente sei: mancanza di dispositivi di protezione individuale; mancanza di formazione; attività dell’infortunato o attività di terzi; macchine e attrezzature non a norma; materiali utilizzati, ambienti di lavoro non idonei. Se noi siamo capaci di intervenire su questi sei ordini di cause, che spiegano tutti i tipi di infortuni mortali, e siamo in grado di prevederne il verificarsi, abbiamo risolto quella che troppo spesso viene definita emergenza, mentre è in realtà una situazione che perdura da tempo. Vorrei contestualizzare una modalità di infortunio mortale molto frequente, che spiega la maggior parte delle morti nell’ambito dell’edilizia: la caduta dall’alto. Perché si muore cadendo dall’alto? Per una mancata formazione del lavoratore? Qualche volta. Ma nella quasi totalità dei casi si muore perché mancano le protezioni contro la caduta dall’alto. Ed ecco che torniamo ad uno dei sei fattori che citavo prima: ambiente di lavoro non a norma, ovvero mancante di un parapetto idoneo, di un impalcato idoneo, di un sistema di ancoraggio per le imbracature. È così banale, eppure ancora oggi non si riesce ad eliminare la principale causa di morte per i lavoratori edili. È una questione di cultura della sicurezza”.
Cultura della sicurezza che, stando a quanto ricostruito dalla Procura, sarebbe proprio ciò che è mancato nell’ambiente di lavoro in cui si è trovato lo sfortunato Giuseppe Petraglia.
La morte dell’operaio-calciatore scosse profondamente la comunità brindisina: al funerale, presso la chiesa Cuore Immacolato di Maria, in piazza Bartolo Longo, al rione Perrino, erano presenti centinaia di persone, compresi dirigenti, giocatori e tifosi del Mesagne Calcio, in cui Petraglia militava con il numero undici. Sulla bara in cui fu deposto, dipinta di bianco e nero, i colori della sua amata Juventus, fu poggiata la maglia del Brindisi, la cui Curva Sud lo omaggiò con uno striscione recante la scritta “Ciao Giuseppe”. Ma il saluto più struggente fu quello della figlia quattordicenne, per tutta la vita privata, con il fratellino di nemmeno un anno, della figura paterna. Su Instagram la ragazzina scrisse: “Una parte di me se n’è andata, hai lasciato un vuoto dentro alla famiglia e agli amici. Tutti ti volevano bene. Anche se litigavamo spesso, eri comunque il mio re e io la tua principessa. Ti amo tantissimo. Perché proprio tu? Mi manchi tanto, non sono riuscita neanche a salutarti, e di questa cosa me ne pento tantissimo. Avrei dovuto dirti che ti ho sempre amato e che, nonostante le litigate, rimanevi l’uomo più importante per me. Manchi anche alla tua squadra e ora, in qualunque posto tu sia, continuerò a tifarti, se non con la presenza con il pensiero. Ti amo papà”, concludendo con “Perché è andata così?”. Una domanda a cui tenterà di dare risposta il processo, se il Giudice dell’udienza preliminare, il prossimo 19 novembre, deciderà di rinviare a giudizio gli imputati indicati dalla Procura (per i quali vige comunque il rispetto della presunzione di non colpevolezza sino al terzo grado di giudizio).
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