
Di Gianmarco Di Napoli per il numero 386 de Il7 Magazine
Può l’omicidio di un ragazzo di 19 anni, maturato in ambienti malavitosi, lasciare una traccia importante non solo sul piano giudiziario e investigativo, ma anche su quello delle coscienze civili? E può una vicenda così tristemente “ordinaria”, divenire un simbolo di speranza, trasmettere l’idea che qualcosa stia effettivamente cambiando? La risposta è sì.
Il processo per l’assassinio di Giampiero Carvone, ammazzato a 19 anni nel settembre 2019, sotto la sua abitazione al rione Perrino, a prescindere da come si concluderà la vicenda giudiziaria, ha aperto uno squarcio nelle dinamiche proprie degli ambienti malavitosi, che restano quelle della giustizia personale e dell’omertà, grazie a due personaggi divenuti centrali prima nelle indagini e poi nel processo in Corte d’Assise: Piero Carvone, il padre della vittima, e una giovane donna che Giampiero lo conosceva appena, ma che con la sua decisione (dolorosa e che le ha cambiato per sempre la vita) di diventare testimone di giustizia, ha consentito di arrestare il killer.
Piero Carvone ha da tempo un buon lavoro e ha scelto la strada del rispetto totale della legge. Non una questione d’opportunità, ma una scelta consapevole. Non è sempre stato così. Al rione Perrino per quelli della sua generazione era difficile restare al di fuori da certi meccanismi e regole che negli anni Novanta quasi imponevano di infrangere la legge. Il Perrino era il quartiere dei Morleo e dei Pugliese, i “Babalasciù”. Comandavano loro, giravano tanti soldi, grazie soprattutto al contrabbando di sigarette.
Piero da tempo ha imboccato la strada giusta, ma il figlio Giampiero era rimasto imbrigliato ancora nelle vecchie dinamiche: amicizie sbagliate, la voglia di emergere a tutti i costi e in certi giri per sentirti importante devi dimostrare di essere uno con le palle. Lui rubava macchine e, si legge nelle carte processuali, aspirava a legarsi proprio a Danilo Pugliese, l’ultimo dei “Babbalasciù” rimasto a presidiare il quartiere.
Quando gli hanno ammazzato il figlio, Piero non ha capito subito chi avesse agito e quale fosse il movente, anche perché una serie di coincidenze avevano fatto pendere inizialmente le indagini della squadra mobile e della Procura di Brindisi in una direzione completamente sbagliata. E probabilmente il giallo dell’omicidio non sarebbe mai stato risolto se il padre di Giampiero non si fosse mosso lui per cercare di capire davvero cosa fosse successo. E ci è riuscito. Nel rispetto della legge e poi affidandosi ad essa.
A un certo punto di questa vicenda, prima che il coordinamento delle indagini fosse assunto dalla pm della DDA di Lecce Carmen Ruggiero, si era in una situazione di stallo molto pericolosa in quanto il padre di Carvone era ormai certo della responsabilità di Giuseppe Ferrarese (perché in certi quartieri la verità viaggia sempre sui binari paralleli molto velocemente) e il killer dal canto suo era ben cosciente di essere stato ormai individuato. Tanto che si guardava bene dal farsi vedere in giro. Ma dall’altro lato le indagini proseguivano molto lentamente e soprattutto ancora nella direzione sbagliata.
Ora possiamo solo immaginare cosa possa essere passato per la testa di Piero e quante volte, svegliandosi di soprassalto di notte, possa avere avuto la tentazione di farsi giustizia da solo. E’ un pensiero che ogni padre cui hanno ammazzato il figlio potrebbe avere, sapendo che l’assassino, per altro uno dei suoi migliori amici, è libero mentre il suo ragazzo è dentro una tomba. A maggior ragione per chi è cresciuto in quel quartiere e ha vissuto – in passato – certe dinamiche.
Ma Piero Carvone ha scelto di rispettare la legge ed è riuscito in quello che gli investigatori sino a quel momento non erano stati in grado di fare: ha individuato la testimone-chiave dell’inchiesta, fino ad allora mai interrogata, e l’ha messa nelle condizioni di parlare con gli inquirenti. Poi ha atteso in silenzio che la giustizia facesse il suo corso. Per lungo tempo, in dolorosa pazienza.
In quei mesi ho incontrato più volte Piero Carvone, ne percepivo l’ansia e l’inquietudine dell’attesa. E la mattina che Ferrarese fu arrestato lo chiamai prestissimo per dargli la notizia: ricordo il suo pianto al telefono e le sue parole commosse. Alcune delle quali sono state richiamate in una piccola nota che lui e la sua famiglia hanno affidato all’avvocato Marcello Tamburini e che è stata letta in aula, davanti alla Corte d’Assise di Brindisi, al termine dell’arringa della parte civile.
Dice Piero Carvone, insieme alla sua famiglia: “Cosa ha rappresentato Giampiero per i suoi genitori, per i suoi familiari? Innanzitutto essere un loro figlio, essere vita, forza, amore, anima, un pezzo del loro cuore. Quando nasce un figlio si ha una ragione in più per vivere e purtroppo questa ragione ci è stata tolta dalla cattiveria umana, da un suo coetaneo che senza motivo o almeno senza motivo plausibile, se ce ne possono essere, ha deciso di togliere la vita ad una persona di soli 19 anni, volontà paragonabile a quella divina. Giampiero aveva una vita davanti, sarebbe potuto diventare papà e avere la gioia di un figlio. Ferrarese ha deciso di condannare i suoi familiari all’ergastolo della sofferenza a vita e sarebbe auspicabile che la giustizia gli riconoscesse la stessa sofferenza. A volte l’essere umano compie gesti come questi senza rendersi conto di quali possano essere le conseguenze, viviamo in una società dove c’è poco rispetto per la vita umana ed è necessario che qualcuno possa far capire cosa significhi sbagliare e quali sono le conseguenze. La perdita di Giampiero ha rappresentato per noi la perdita di un pezzo di cuore, la nostra vita si è fermata quella maledetta sera è andata in pausa per sempre con un grande vuoto e un respiro a metà. Un domani ci potremo sicuramente reincontrare e mai più dividerci. Abbiamo perso un figlio, un fratello, un nipote, ma chi ha perso più di tutti è Giampiero, rinchiuso nel buio senza mai più rivedere la luce”.
Ho più volte scritto della super testimone, la giovane donna, madre di due ragazzini, che ha incastrato l’assassino, con il quale aveva avuto una breve relazione. La sua scelta è stata devastante perché è stata messa sotto protezione ed è stata costretta a lasciare Brindisi, a cambiare identità a farsi una nuova vita. Non aveva nulla da guadagnarci in questa scelta: Giampiero lo conosceva appena, gli investigatori non l’avevano mai presa in considerazione e poavevano sottovalutato le sue dichiarazioni, essendo orientati ancora verso una pista sbagliata. Avrebbe potuto rimanere in silenzio, continuare la sua vita nel quartiere, rimanere nella sua città. E invece ha parlato, anche per i suoi figli, perché un giorno l’omertà non venga considerata ancora un valore.
Meglio di chiunque altro questa figura straordinaria è stata descritta dal pm Carmen Ruggiero nella parte finale della requisitoria con la quale ha chiesto l’ergastolo per Giuseppe Ferrarese e cinque anni e tre mesi per Orlando Carella, ossia l’uomo che aveva minacciato proprio lei, la testimone, per evitare che parlasse.
Ha detto la Ruggiero: “Alla fine della sua testimonianza (durante l’incidente probatorio, ndr) lei dice : mi rivolgo a voi che siete persone normali, e si rivolgeva agli avvocati, al giudice, al pubblico ministero, voglio dire a voi che siete persone normali, che da tutto questo, dal mio dire la verità, io e i miei figli abbiamo avuto problemi perché ce ne siamo dovuti andare, abbiamo ricevuto sofferenza, ma questa deve essere la normalità”.
Questa normalità che richiama la testimone – aggiunge la pm Ruggiero – è una normalità che dovrebbe essere tale per tutti noi, dovrebbe essere il codice etico dell’uomo medio che ripugna l’infamia, che ripugna l’omertà”.