Di Marina Poci per il numero 387 de Il7 Magazine
Il gesto del braccio con cui accompagna il perentorio e sfidante “non voglio rispondere, ho già detto quello che dovevo dire” sembra quasi allontanare “fisicamente” le domande del difensore delle parti civili, Domenico Attanasi. Con la stessa assertività, opponendogli un rifiuto altrettanto netto, si rivolge a Francesco Monopoli, che difende la coimputata (accusata di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti) Annunziata D’Errico, madre di Paolo Stasi, il 19enne di Francavilla Fontana ucciso con due colpi di pistola sulla soglia della propria abitazione in via Occhi Bianchi il pomeriggio del 9 novembre 2022.
Nell’udienza del 21 gennaio scorso celebrata dinnanzi alla Corte d’Assise di Brindisi (presidente Maurizio Saso, a latere Adriano Zullo), Luigi Borracino, che una sentenza (appellata) del Tribunale dei Minorenni di Lecce ha riconosciuto colpevole di detenzione e cessione di droga e dell’omicidio di Stasi, sceglie di rendere l’esame rispondendo soltanto al suo avvocato, Maurizio Campanino, e al sostituto procuratore della Repubblica titolare del fascicolo d’inchiesta, Giuseppe De Nozza. Un rifiuto del contraddittorio che, ai sensi del codice di procedura penale, rende le sue dichiarazioni accusatorie nei confronti della D’Errico del tutto inutilizzabili, eppure consegna alla Corte d’Assise il ritratto del giovane, minorenne all’epoca dei fatti, che nel processo in Assise era sempre rimasto in ombra. Un giovane che non ha partecipato al funerale di colui che chiamava amico, che nemmeno nei giorni successivi ha fatto visita ai suoi genitori e che, in più di due anni, non ha mai avvertito l’esigenza di chiedere scusa alla famiglia della vittima. “E perché avrei dovuto? Non volevo ucciderlo, ma soltanto spaventarlo”, risponde incalzato dal PM, per poi concludere con un lapidario “Non ho niente per cui chiedere scusa” che ammanta di gelo l’aula Metrangolo del palazzo di giustizia brindisino.
Reo confesso e già condannato con rito abbreviato a vent’anni di reclusione dalla Giudice minorile Lucia Rabboni, dinnanzi ai due togati brindisini e ai giudici popolari Borracino è accusato soltanto dei reati legati agli stupefacenti commessi dal momento del raggiungimento della maggiore età sino al maggio 2023, mentre Cristian Candita, il ragazzo che lo accompagnò in macchina a casa di Stasi, risponde di concorso in omicidio, e altre quattro persone sono accusate di reati in materia di droga.
“Luigi” (è così che, eliminando il formalismo del “lei”, acconsente a farsi chiamare sia dall’avvocato Campanino che dal PM) è un ventenne minuto e dall’aspetto curato, come tanti se ne incontrano nei luoghi di ritrovo, per strada, nelle scuole. Si presenta alla Corte con un taglio di capelli rasato sotto e più folto sopra, è vestito di scuro, con pantaloni skinny corti alla caviglia e sneakers. All’inizio risponde alle domande rivolgendosi al suo difensore, poi il presidente Saso lo riprende “Guardi la Corte quando risponde, e si faccia guardare”, lo rimbrotta il magistrato.
Sollecitato da Campanino, Borracino racconta che, prima di finire in carcere per l’omicidio, lavorava come bracciante agricolo e prima ancora era un operaio nell’impresa edile dello zio. Poi ricostruisce sin dal principio i rapporti con Paolo Stasi: lo definisce amico, un’amicizia iniziata quando aveva più o meno “15 o 16 anni” e proseguita, tra alti e bassi, sino al pomeriggio della morte del 19enne. Uscivano insieme, con loro c’era anche un terzo ragazzo, poi morto in un incidente stradale. Una perdita che, come emerso anche da altre testimonianze precedenti, segnò profondamente Paolo tanto che, da qual momento, i due ragazzi, pur continuando a vedersi, passavano i pomeriggi in casa Stasi perché Paolo si rifiutava di uscire. L’evento coincise con la pandemia da Covid-19, mese più mese meno, e con l’inizio di quello che Borracino chiama “business”: l’approvvigionamento da un uomo di colore, nella zona della stazione ferroviaria di Francavilla Fontana, di marijuana, hashish e cocaina, sostanze che venivano custodite e confezionate nell’abitazione di via Occhi Bianchi per essere rivendute. Non a titolo di favore, come invece aveva dichiarato Annunziata D’Errico nel corso del suo esame testimoniale, parlando del buon carattere di Paolo che per amicizia consentiva il deposito della sostanza in casa, ma in base a un patto che prevedeva un corrispettivo in denaro: “circa 200/250 euro a settimana”, dice Borracino al suo difensore, che diventano “circa 150” quando risponde alle domande del PM. Un accordo a tre, siglato da Luigi e Paolo soltanto dopo che quest’ultimo ebbe acquisito il consenso della madre, Annunziata D’Errico, che consumava abitualmente spinelli insieme alla vittima e spesso assisteva al confezionamento delle dosi da parte dei due giovani. Sul consumo di cocaina Luigi non si pronuncia: non ha mai visto Paolo e la madre farne uso, anche se, aggiunge, “che ne so che facevano quando io non c’ero?”.
Le cose iniziarono a degenerare quando, circa un anno prima dell’omicidio, Borracino realizzò che nella sostanza lasciata in custodia vi erano degli ammanchi, all’inizio minimi, poi di consistenza sempre più notevole, sia di marijuana che di cocaina: Luigi ne parlò a Paolo, il quale negò. Ma Borracino, certo del quantitativo lasciato a casa Stasi, iniziò a scalare il compenso settimanale da corrispondere in proporzione alla quantità di stupefacenti mancante. Una decisione che creò attriti e frizioni tra i due, ma che Luigi dovette ritenere necessaria anche in virtù della circostanza che, poco prima del 9 novembre, il debito accumulato era pari a più o meno 20mila euro: una cifra stimata dall’imputato su domanda del PM, il quale gli chiede, anche, se prima del giorno dell’omicidio, vi fossero state, allo Stasi e alla D’Errico, altre richieste di rientrare dell’esposizione debitoria e, soprattutto, se una parte di essa fosse stata ripianata con il denaro rinveniente dal conto corrente di Paolo, che in poco più di un anno, partendo da un saldo positivo di circa 16mila euro, arrivò a saldo zero (“Non è che per caso con quei soldi Paolo ha cominciato a pagarti il debito?”, lo sollecita De Nozza). Un fatto che Borracino nega con forza, così come nega di aver mai minacciato l’amico o di avere mai voluto fargli del male prima di quel 9 novembre, quando – recandosi da Stasi una prima volta intorno alle 15:30, appena tornato dal lavoro – si rese conto che mancava più della metà della droga lasciata in custodia. Un litigio, culminato con uno schiaffo del Borracino a Stasi (e pare che non fosse la prima volta che l’imputato diventasse violento col più mite Paolo), fu ciò che determinò in Luigi il proposito di rientrare a casa (“a fare una doccia e mangiare qualcosa”), prendere la pistola di cui disponeva e tornare con l’arma per spaventare la vittima e riappropriarsi della busta verde in cui era contenuta la sostanza residua e il materiale utile al confezionamento. Una necessità dettata anche dalla speranza di far desistere Paolo dall’intenzione di rivolgersi ai Carabinieri per denunciare le vessazioni subite. Da questo momento in poi il racconto dell’imputato diventa illogico, incongruente, per certi versi irragionevole: sottoposto al fuoco di fila delle domande del sostituto procuratore De Nozza e del presidente dell’Assise Maurizio Saso, Borracino dice che non si portò dietro la poca droga rimasta soltanto perché, essendo arrivato in scooter, non avrebbe saputo dove metterla e quando Saso gli fa notare che “era poca, sarebbe entrata nel vano sottosella”, abbozza un “là dentro c’erano altre cose e comunque in quel momento ho pensato che andare in macchina sarebbe stato più sicuro”. Luigi aggiunge poi che comunque sarebbe dovuto tornare a casa Stasi per prendere la borsa e al rilievo di De Nozza “perché? che valore aveva per te quella borsa? conteneva giusto nastro adesivo e bustine di cellophane…”, l’imputato risponde “mica potevo lasciare tutto là” (al che il PM gli oppone un ironico “lo smaltimento dei rifiuti avrebbe dovuto essere un problema della famiglia Stasi, non tuo…”). Infine, quando presidente della Corte e pubblico ministero gli chiedono se non abbia avuto timore, visto l’avvertimento di Paolo, di trovare i Carabinieri a casa Stasi, e se valesse la pena andare in giro armato soltanto per spaventare la vittima e recuperare la droga residua, Luigi chiama in soccorso la sua minore età (“se stavano i Carabinieri li avrei visti… e comunque in quel momento non ci ho pensato: avevo 17 anni, mica 30”).
Le osservazioni dei due magistrati hanno lo scopo di dimostrare la fondatezza dell’aggravante della premeditazione dell’omicidio (già ritenuta sussistente dalla Gup Rabboni del Tribunale dei Minorenni) anche con riferimento alla posizione del coimputato Cristian Candita, generosamente “blindata” dalle dichiarazioni di Borracino, il quale esclude che l’amico fosse a conoscenza delle sue intenzioni e, soprattutto, del fatto che avesse una pistola. Luigi dice che sì, qualche volta Cristian lo aveva accompagnato a casa Stasi e che sapeva che lì c’era qualcuno che deteneva droga per suo conto, ma non conosceva Paolo e mai ne aveva sentito parlare sino al pomeriggio del 9 novembre 2022. Candita e Borracino, dopo che questi era stato una prima volta in via Occhi Bianchi, si incontrarono in villa comunale e in quella occasione Luigi si accordò con Cristian per farsi accompagnare nell’appartamento che il PM definisce “centrale dello spaccio”, dove avrebbe sparato “due colpi nelle gambe” a Paolo per intimorirlo e dissuaderlo dal rivolgersi ai Carabinieri. Poi le cose andarono diversamente: una volta arrivato Luigi si accorse che mancava anche la droga che alle 15:30 invece era ancora contenuta nel borsone, quindi puntò l’arma verso Paolo (che si chiuse il portone di ingresso dell’abitazione alle spalle) e sparò, senza capire se lo avesse colpito e con quali conseguenze. Che l’amico di tanti pomeriggi passati a confezionare bustine di sostanze stupefacenti fosse morto lo seppe in tarda serata, dopo che, insieme ad un Cristian Candita alterato per essere stato tenuto all’oscuro dell’arma e preoccupato per i risvolti di quanto accaduto, andò a disfarsi della pistola nelle campagne sulla strada per San Marzano.
Su tutto il resto Borracino glissa: quando il presidente Saso gli chiede che ruolo abbia avuto Candita nell’omicidio, risponde “nessuno”; quando gli viene contestato a cosa si riferiscano le parole di Cristian, che in una intercettazione ambientale dice di essersi comportato con lealtà (“non sono un pisciaturo”), dice che non ne ha idea; quando l’amico, sempre in una intercettazione, sbotta con “non dobbiamo ammazzare più nessuno”, dice che non ricorda di averglielo sentito dire.
L’Assise si aggiorna all’8 aprile, udienza destinata alla requisitoria del PM De Nozza e alla discussione dell’avvocato Attanasi, che difende le parti civili (padre, madre e sorella di Paolo Stasi), ma per Luigi Borracino la data cruciale sarà il 26 marzo, quando l’avvocato Maurizio Campanino discuterà in appello la propria richiesta di sottoporlo a perizia psichiatrica che ne valuti la capacità di intendere e volere al momento dei fatti. Una richiesta già respinta in primo grado, ma che potrebbe in ipotesi ribaltare le sorti del giovane killer reo confesso.