Omicidio Stasi, parla l’autista del killer: “Dovevamo solo recuperare il borsone con la droga”

Di Marina Poci per il numero 372 de Il7 Magazine
Non si sottrae all’esame del suo difensore, l’avvocato Maurizio Campanino, e del pubblico ministero Giuseppe De Nozza e, sul finale, risponde alle domande del presidente della Corte d’Assise di Brindisi Maurizio Saso (affiancato dal giudice a latere Adriano Zullo): nel processo per l’uccisione del 19enne francavillese Paolo Stasi, avvenuto nella Città degli Imperiali il 9 novembre del 2022, il 15 ottobre è il giorno dell’esame del 23enne Cristian Candita, accusato insieme a Luigi Borracino (17enne all’epoca dei fatti e già condannato in primo grado a vent’anni di reclusione dal Tribunale per i Minorenni di Lecce) di concorso nell’omicidio del giovane e nei reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti che fanno da sfondo alla vicenda.
Parla per più di tre ore, Candita, offrendo alla Corte la sua verità sui giorni precedenti e successivi alla morte di Stasi, sul movente e sulle circostanze dell’omicidio, sul rapporto con Borracino e su quel concitato pomeriggio in cui Paolo, rispondendo ad una chiamata telefonica anonima e scendendo per le scale dell’abitazione di via Occhi Bianchi numero 16, andò incontro alla morte. Un pomeriggio iniziato, a dire di Candita, quando Borracino, dopo avere terminato il lavoro in campagna, lo chiamò sul cellulare e lo raggiunse nella villa comunale di Francavilla Fontana mentre era impegnato a fumare una canna.
Quello di Candita segue l’esame di Annunziata D’Errico, ascoltata nell’udienza del 23 settembre scorso dall’Assise nella doppia veste processuale di imputata per i reati in materia di droga e di persona offesa costituita parte civile, in quanto madre della vittima: decisive per il processo si sono rivelate le parole della donna che – oltre a fornire un contributo sui legami tra Paolo Stasi e Luigi Borracino rispetto al confezionamento e alla detenzione delle sostanze stupefacenti in casa Stasi, ha anche confermato – se pure con estrema riluttanza – il movente da sempre sostenuto dalle due Procure interessate, quella presso il Tribunale per i Minorenni e quella ordinaria, ovvero che la morte del 19enne francavillese sia stata ordita da Borracino a seguito di un debito accumulato da Nunzia e Paolo per stupefacente consumato e non pagato (D’Errico ha comunque precisato che il credito maturato ammontava a poche centinaia di euro e non ai 5mila euro ipotizzati dal PM).
Idealmente il processo riparte da qui, da quel debito per il quale, il pomeriggio dell’uccisione, Cristian Candita dice di aver visto Borracino “preoccupato come non mai”, agitato e nervoso come nei dieci mesi di conoscenza pregressa non gli era mai capitato di vederlo. A differenza di Annunziata D’Errico, però, Candita non parla di sostanza stupefacente consumata e non pagata con il beneplacito di Luigi, ma di sostanza stupefacente “sparita”.
Il coimputato riconosce di rifornirsi di droga insieme a Luigi Borracino in piazze su Taranto, Bari e Noicattaro, di acquistare la roba con soldi da lui prestati, di dividere gli introiti della vendita delle singole dosi e di arrivare a guadagnare anche 700 euro a settimana. Nega di avere conosciuto la vittima e di avere saputo che quella in cui Luigi portava e lasciava in custodia la sostanza stupefacente era l’abitazione della famiglia Stasi. Nonostante ammetta di averlo accompagnato “circa quattro o cinque volte in un anno” in via Occhi Bianchi, nega persino di aver mai visto il bustone verde che Borracino utilizzava per recapitare e ritirare la droga da Paolo. Riferisce che Luigi gli raccontò di avere avuto, nel primo pomeriggio di quel 9 novembre, una accesa discussione con una persona della quale non rivelò l’identità: la lite, nel corso della quale Luigi mollò anche due schiaffi, era avvenuta a causa degli ammanchi di droga che Borracino, ormai stufo, non era più disposto a tollerare. Nella versione di Candita, l’allora 17enne gli chiese di essere accompagnato a ritirare una volta per tutte quel borsone; gli disse che aveva bisogno di un passaggio in macchina perché sotto la sella dello scooter, che abitualmente i due utilizzavano per spostarsi, il borsone, evidentemente pieno, non sarebbe entrato; poi si lasciò scappare quel “gli devo sparare due colpi nelle gambe” che, insieme ai presunti sopralluoghi dei giorni precedenti nelle vicinanze di casa Stasi e alle telefonate, rigorosamente anonime, per invitare la vittima a scendere, costituisce uno dei perni su cui, per la Procura, si regge l’impalcatura della contestata aggravante della premeditazione. Impalcatura che Candita si affretta a smantellare pezzo per pezzo, dicendo che quelle erano parole proferite in un momento di rabbia, senza alcuna reale intenzione di fare del male e, tanto meno, di uccidere, perché Luigi non è uno che perde la testa, “non è un violento, è una persona solare”, voleva soltanto mettere un punto alla sparizione della sostanza stupefacente. E a proposito di questo, aggiunge che Borracino ebbe piena consapevolezza di quanta droga mancasse e, di conseguenza, del danno economico subito, soltanto il giorno dell’omicidio: nelle settimane precedenti, aveva fatto cenno alla sottrazione di alcune dosi, ma aveva parlato di un passivo di quantità minime.
Poi Candita prosegue con il racconto del pomeriggio fatale: Luigi che, prima di recarsi da Paolo Stasi, ebbe bisogno di passare da casa per lavarsi dopo la giornata in campagna (ma “Lei è sicuro che non sia andato a casa per recuperare la pistola con cui aveva intenzione di sparare alla vittima?”, gli chiede il pubblico ministero); le prove con i telefoni per capire se il famoso “#31#” era realmente in grado di oscurare il numero della chiamata in entrata; il parcheggio in una via dove si pensava che non ci fossero telecamere; la scelta di Borracino di sedersi sui sedili posteriori della Fiat Grande Punto, che Cristian Candita giustifica con il maggior comfort dell’amico mentre gli preparava una canna e che per il PM De Nozza è semplicemente un modo per non essere identificato, considerato che la macchina aveva vetri oscurati al lunotto e ai finestrini posteriori.
Luigi scese dalla macchina e vi ritornò pochi minuti dopo: circa dieci, secondo Candita, ma in realtà furono molti meno, come fa notare il pubblico ministero. Il lasso di tempo sufficiente a raggiungere casa Stasi, sparare a Paolo e tornare alla vettura intimando a Cristian “Accendi il motore e andiamo, è successo un casino”. Quel casino era la morte di un 19enne con due colpi di pistola che Candita, nonostante fosse rimasto in macchina, aveva udito distintamente, anche se lì per lì non seppe ricondurli a quanto fatto dall’amico. Perché di quella morte i due imputati seppero soltanto qualche ora dopo, in piazza, quando la notizia si diffuse in paese e le prime ipotesi su responsabili e movente iniziarono a circolare. “Luigi era sotto shock”, racconta Candita, “perché, anche se non voleva ucciderlo, si sentiva responsabile. Era dispiaciuto perché, nonostante tutto, considerava Paolo un amico”.
All’inizio Borracino non parlò, iniziò a raccontare la sua versione dell’accaduto una volta che Candita uscì dal centro abitato e si allontanò verso la periferia di Francavilla: “Luigi mi disse che Paolo aveva tentato di chiudere il portoncino d’ingresso dell’abitazione e che erano partiti i colpi. Poi mi chiese di rallentare perché doveva liberarsi della pistola: la gettò in un cassonetto, ma era buio, non ricordo dove si trovasse”. Cristian Candita sapeva di quella pistola: era a conoscenza del fatto che Borracino avesse un’arma (“un revolver”, precisa, a domanda del presidente Saso) e l’aveva già vista, ma non sapeva che Luigi la portava con sé il giorno dell’omicidio. Racconta che, frequentando spacciatori e venditori di sostanze stupefacenti, Borracino aveva il timore di entrare in contatto con brutta gente e si sentiva più sicuro possedendo un’arma.
Nel corso del controesame, il PM sottopone all’imputato alcune intercettazioni ambientali in cui sembrerebbe emergere l’ipotesi di “completare il lavoro” uccidendo la mamma di Paolo, complice dell’ammanco della sostanza stupefacente: alcune frasi, secondo la Procura, dovrebbero essere interpretate nel senso che Candita avrebbe sconsigliato a Borracino di portare avanti il piano perché, considerato che Annunziata D’Errico fece il nome di Luigi ai Carabinieri la sera stessa del delitto, gli inquirenti sarebbero arrivati facilmente a lui. Ma è una ricostruzione che Cristian Candita rigetta in toto, così come rigetta ogni ipotesi accusatoria che preveda la sua correità nell’omicidio di Paolo che si basi sulla considerazione che, avendo un accordo con Borracino sulla spartizione del ricavato dell’attività di spaccio, il debito maturato da Stasi e D’Errico riguardava anche una parte dei suoi potenziali guadagni, fornendogli di fatto un movente (ma questo il PM non lo esplicita, lo insinua e lo lascia aleggiare e, probabilmente, sarà una carta che si giocherà nella discussione per rafforzare la tesi di un Candita non soltanto pienamente consapevole delle intenzioni dell’amico, ma del tutto complice del piano omicidiario).
L’esame di Cristian Candita si conclude con le poche, dirette e chirurgiche, domande del presidente Saso, la più incisiva delle quali mette a nudo, con la logica del senso comune, l’incongruenza e l’irragionevolezza di alcune delle dichiarazioni dell’imputato: “Lei e Borracino avete discusso su quanto accaduto? Per quale motivo ha conservato i rapporti con lui nonostante lei sostenga di essere stato coinvolto inconsapevolmente nell’omicidio?”. Nella risposta di Candita, ammesso che dica la verità, c’è tutto il malinteso senso dell’onore e dell’amicizia di un ragazzo poco più che ventenne che, malgrado tutto, non intende tradire una persona a cui si sente legato: “Perché Luigi per me è come un fratello, ormai ero dentro a questa storia, non ce l’ho fatta ad abbandonarlo al suo destino. Non sono un “pisciaturo” come tanti”. L’espressione, che nel gergo dialettale identifica un inetto, una persona dappoco, era già venuta fuori nel corso dell’esame, quando De Nozza aveva chiesto a Candita di spiegare alla Corte a cosa si riferisse quando diceva a Borracino “Se fossi stato un pisciaturo, ti avrei chiesto soldi e ti avrei detto di farti accompagnare da un altro”. Ma l’imputato, a questa e a tutte le contestazioni dello stesso tenore, non risponde. Anzi, in un’occasione, forse sentendosi braccato, alza leggermente i toni, pur restando sempre estremamente rispettoso dei magistrati: “Voi partite dal presupposto che noi siamo andati per uccidere, vi siete fissati. Se siete convinti che è così…”, conclude.
Fine dell’esame e fine dell’udienza. Si torna in aula il 12 novembre.
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