Quel biscotto diviso in dieci pezzi: la missione in Africa di una volontaria latianese

Di Marina Poci per il numero 393 de Il7 Magazine
Rintracciamo Martina Papadia il giorno successivo al suo rientro in Italia dalla Tanzania: partita il 20 febbraio e tornata il 3 marzo, la giovane volontaria latianese, al netto del jet lag e della nostalgia, a poche ora dalla fine della sua prima missione umanitaria è già sul posto di lavoro, a riprendere le fila delle attività che per quasi due settimane ha sospeso per poter portare assistenza sanitaria e farmacologica nelle aree più depresse del Paese dell’Africa orientale, in particolare presso orfanotrofi, villaggi Masai, ospedali e dispensari.
Diplomata all’istituto professionale Francesca Laura Morvillo Falcone di Brindisi con indirizzo “Servizi per la sanità e l’assistenza sociale”, Marina Papadia ha poi acquisito la qualifica di operatrice socio-sanitaria (OSS) e ha conseguito la laurea triennale in Servizio Sociale presso l’Università del Salento.
Per lei l’ambito dell’integrazione socio-sanitaria è un affare di famiglia (lo zio, Giuseppe Natale, è fondatore e direttore generale della San Bernardo): come dipendente di quest’ultima cooperativa, in qualità di assistente sociale, si occupa di integrazione scolastica per l’Ambito BR/1 (che riguarda i comuni di Brindisi e San Vito dei Normanni), mentre nella cooperativa Il Giglio, in rappresentanza della quale è stata in Tanzania, svolge la funzione di vicepresidente.
La missione a cui ha partecipato, organizzata e finanziata dalla Cooperativa Sociale San Bernardo e dalla Cooperativa Il Giglio, entrambe di Latiano, e promossa dall’associazione di promozione sociale Ripartiamo di Roma con la direzione scientifica del dottor Walter Morale, ha goduto della collaborazione del Centro medico-diagnostico e fisioterapico IGEA di Grottaglie e del patrocinio della Regione Puglia, delle ASL di Brindisi e Taranto e di diversi comuni pugliesi.
Perché è partita?
“Avevo da tempo il desiderio di portare il mio aiuto in un mondo totalmente diverso da quello in cui vivo. E adesso, a poche ore dal rientro, devo dire che sono stata felicissima di averlo fatto”.
Di cosa si è occupata nello specifico?
“Sono partita come OSS, per cui ho dato il mio contributo ai dottori e alle infermiere in questo ruolo: piccole medicazioni, somministrazione di farmaci, assistenza durante gli esami e durante le terapie. I nostri pazienti erano soprattutto bambini, ma abbiamo visitato anche molte mamme che avevano bisogno di controlli dopo il parto o semplicemente di consigli”.
Dal punto di vista medico, che problemi avete riscontrato?
“Direi che il problema più grande è la carenza di antibiotici, anche locali, ad esempio per la cura delle otiti e delle congiuntiviti. I bambini soffrono di malattie che qui si curano tranquillamente, ad esempio semplici problemi di stomaco, che qui si affrontano senza troppe preoccupazioni e invece lì posso debilitarli in modo molto grave”.
Da quante persone era composta la missione?
“Oltre a me, c’erano due medici, due infermiere, una studentessa in Medicina, un fotografo, un videomaker e alcuni interpreti e accompagnatori, soprattutto suore”.
Avete avuto problemi di comunicazione? La questione linguistica com’è stata affrontata?
“La maggior parte delle persone che abbiamo incontrato parlava un buon inglese, quindi non è stato difficile comunicare. Anche i bambini lo conoscono bene, soprattutto quelli hanno la possibilità di studiare. In alcune zone, però, quelle un po’ più isolate, si parla swahili, quindi la guida faceva da interprete”.
Che umanità ha trovato?
“Splendida, dappertutto. Non siamo rimasti soltanto ad Arusha, ci siamo spostati in molti villaggi, visitando soprattutto ospedali e orfanotrofi. Ma in tutti i posti in cui siamo stati abbiamo incontrato persone accoglienti, disponibili e riconoscenti per il piccolo aiuto che stavamo portando loro: i loro coloratissimi balletti tradizionali, accompagnati dal battito delle mani, ci sono rimasti dentro. Non dimenticherò mai i sorrisi e gli abbracci dei bambini ospiti in orfanotrofio o in casa famiglia. Sono piccoli con pochissime possibilità e pochissimi mezzi, ma sorridono anche per una carezza. Anche il vescovo Prospere Baltazar Lymo è stato gentilissimo: nonostante siamo arrivati molto tardi, tutte le persone che prestano servizio in diocesi ci hanno aspettato per cenare insieme e hanno preparato da mangiare piatti squisiti. Abbiamo avuto a che fare con molte comunità diverse, ma tutte sono state accomunate dalla gioia di vivere. Il giorno della partenza si sono mostrati molto dispiaciuti, ma noi lo eravamo sicuramente di più. Posso dire di avere lasciato in Tanzania un pezzo del mio cuore”.
Ha lasciato anche il suo nome, nel cuore dell’Africa.
“È successo all’inizio della missione: siamo stati a visitare un dispensario materno-infantile, nel quale lavora un’unica infermiera. È un posto che ospita bambini accompagnati dalle mamme. La maggior parte di loro ha problemi ortopedici, cioè malformazioni agli arti inferiori, anche, ginocchia e soprattutto piedi [n.d.r.: il piede torto congenito è una patologia largamente diffusa nei Paesi in via di sviluppo, dovuta a cause prevalentemente ambientali e genetiche che influenzano il fisiologico processo di sviluppo del bambino nell’utero]. Quando abbiamo terminato il giro visite dei bambini, l’infermiera ci ha chiesto di poter essere sottoposta a un’ecografia, dicendoci di essere incinta: penso fosse il primo controllo che faceva perché non soltanto non conosceva il sesso del feto, ma nemmeno sapeva come stesse e se ci fossero anomalie di qualche tipo. Il responsabile della missione, il dottor Morale, aveva con sé l’ecografo portatile, quindi ha proceduto. Durante l’esame ero seduta accanto a lei, per cui sono stata io a comunicarle che aspetta una bambina. Quando, poco prima di andare via, le abbiamo chiesto se stesse già pensando al nome, lei con molta naturalezza ha detto “la chiamerò Martina”. È stato un momento di pura emozione, uno dei più belli vissuti lì”.
Quando ha comunicato alla sua famiglia, agli amici, ai colleghi di lavoro, che sarebbe partita, quali reazioni ha raccolto?
“Sicuramente c’è stato un po’ di timore, più che altro per i rischi di malattie infettive, anche perché non sapevamo quali condizioni igieniche avremmo trovato. Il sostegno più grande è arrivato dal mio compagno: è stato contento della mia scelta perché sapeva quanto tenessi a fare questo tipo di esperienza. Ma devo dire che anche i miei genitori e mia sorella alla fine, vedendomi così felice, mi hanno appoggiata”.
Tornerà laggiù?
“Vorrei tanto. A settembre partirà un’altra missione, ma per chi si occupa di integrazione scolastica quello è il mese più impegnativo, quindi difficilmente riuscirò a partire in quel periodo. Vedremo…”.

Il ricordo più bello?

“Sono tornata ricca di amore e senso di fratellanza. Ma credo che l’episodio che più mi ha commossa riguardi un bambino a cui è stato regalato dal dottore un pacchetto di biscotti Ringo. Lui ha diviso ogni singolo biscotto in pezzettini piccolissimi, forse dieci, in modo da darne un po’ ad ogni amichetto. Ho pensato ai nostri bambini, a tutte le volte in cui li sentiamo dire ai compagni di giochi “è mio” o “non toccare”, e mi sono sentita piccola piccola. In quel momento ho realizzato che sarei sempre rimasta legata a quella terra e ai suoi abitanti”.

Quindi il “mal d’Africa” esiste, non è un’invenzione letteraria.
“Sì, posso confermare che esiste e io penso di soffrirne”.