«Quelle sei ore in una stanza con il killer di Mellissa»: l’ispettore va in pensione

Raggiunto telefonicamente mentre legge un romanzo di Ken Follet, il suo autore preferito, esordisce raccontando della sua passione per i libri e chiarendo quanto gli faccia piacere ripercorrere la sua vita professionale a pochi giorni dalla conclusione. “Può chiedermi tutto”, dice, “non sono abituato a evitare le questioni scomode”. In effetti, non c’è domanda, nemmeno la più insidiosa, che abbia voglia di eludere. All’indomani del pensionamento, Domenico “Mimmo” Conte, quarant’anni e un mese di onorato servizio nella Polizia di Stato e una parentesi da sindaco della sua San Vito dei Normanni, non si sottrae al confronto, l’unico che ha accettato dacché non è più primo cittadino. Nessun silenzio tattico, nessun calcolato riserbo per l’uomo che conosce come le sue tasche la storia criminale del nostro territorio e ha preso parte, da agente, sovrintendente, ispettore e funzionario, ad alcune delle più importanti operazioni di polizia degli ultimi quattro decenni. Si definisce “un figlio della riforma”, giacché, entrato nell’istituzione il primo aprile 1981, ha vissuto dall’interno la trasformazione del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza nell’attuale Polizia di Stato, passaggio che ha comportato la conversione del corpo da forza militare a forza civile (“sono entrato con le stellette, ma le ho portate per pochi giorni”, ricorda).
Arruolatosi come guardia di pubblica sicurezza (poi diventato agente a seguito della predetta riforma), ha superato tutti i concorsi interni congedandosi come commissario il 30 aprile scorso e prestando servizio a Alessandria, Pescara, Napoli (in forza al Nucleo Speciale Anticamorra e poi alla celeberrima sezione Falchi), Taranto e infine Brindisi, dove è rimasto dal luglio del ’90 sino al 2015, anno della sua elezione a sindaco di San Vito dei Normanni con il centro-sinistra. Candidatosi alle elezioni regionali dello scorso anno in una lista a sostegno del presidente della Puglia Michele Emiliano, non è stato eletto ed è rientrato in servizio lavorando presso il commissariato di Ostuni e poi presso quello di Manduria. Parallelamente all’attività lavorativa, è cresciuto l’impegno nel SIULP, il primo sindacato italiano di Polizia, nel quale ha militato per circa trent’anni ricoprendo ruoli apicali sia in contesti locali che a livello nazionale.
I primi giorni in pensione li ha trascorsi cercando di esercitarsi a non avere più tanti impegni a cui pensare contemporaneamente e, soprattutto, dedicandosi a letture sospese che è impaziente di recuperare.
Come mai Follett? Un superpoliziotto come lei non legge Manzini o de Giovanni?
“Ken Follett resta il mio autore preferito. Per quanto riguarda il filone poliziesco, la mia figura di riferimento è il commissario Montalbano di Andrea Camilleri. Ne condivido l’approccio al lavoro, ma anche la sensibilità e l’attenzione ai luoghi, alle tradizioni, alle persone. Così come mi è sempre piaciuto moltissimo il tenente Colombo, del quale ammiro l’intuito e l’ironia. Ultimamente ho seguito la serie dedicata a Lolita Lobosco, della quale ho conosciuto l’autrice, Gabriella Genisi, i cui libri avevo letto con piacere. Mi ha confidato che il personaggio di Lolita è ispirato ad una sua cara amica, che io conosco benissimo, in quanto mia ex collega, adesso diventata questore, la dottoressa Maria Letizia La Selva. Io e Gabriella ci siamo sentiti più volte dopo, anche in occasione della serie tv, per la quale le ho dato pareri e consigli”.
Quarant’anni nella Polizia di Stato: potremmo definirlo un matrimonio. Quando nasce questa grande storia d’amore?
“È giusto parlare di matrimonio, perché lo è stato, dato che i miei colleghi hanno rappresentato per me un’altra famiglia, oltre a mia moglie e alle mie figlie. Da piccolo dicevo che avrei fatto il prete o il poliziotto: alla fine ha prevalso la passione per le investigazioni, con qualche dispiacere per mio padre quando lasciai l’università. Mi ero diplomato al Giorgi come perito chimico industriale, il passo successivo fu iscriversi a Scienze Biologiche. Mi reputo una persona fortunata; ho fatto il lavoro che volevo fare e l’ho concluso con soddisfazione, malgrado, come ogni matrimonio, non sia sempre stato tutto facile e bello. M ricomincerei tutto, anche domani mattina”.
Che ruoli ha ricoperto?
“A parte la parentesi napoletana, dove ho fatto esperienza di ordine pubblico, ho sempre avuto compiti investigativi, perché sino a quel momento, e anche dopo, ho lavorato nelle squadre mobili. Però, quando a luglio del ’90 sono arrivato a Brindisi, ciò che avevo imparato a Napoli mi è stato utilissimo”.
Perché era arrivato a Marlboro City.
“Non solo. In quegli anni all’emergenza contrabbando si è unita l’emergenza, altrettanto impegnativa, derivante dagli sbarchi dei nostri amici Albanesi. Brindisi era considerata una piccola realtà, c’era una squadra mobile composta da circa venti persone, adeguata alle esigenze precedenti del territorio. In pochissimo, date le necessità, siamo cresciuti sino a diventare il doppio. Ho iniziato facendo indagini legate prevalentemente alla criminalità organizzata. Nel ’94, dopo aver vinto il concorso per ispettore, il dirigente della mobile e il questore mi hanno proposto di passare all’antidroga, come responsabile, incarico che, devo essere sincero, ho accettato con titubanza. Non era quello che volevo fare ma, naturalmente, non ho potuto che dare la mia disponibilità”.
Da cosa derivava questa titubanza?
“Dall’intuizione che, al netto delle questioni investigative, mi sarei dovuto occupare di un mondo nel quale gli interessi economici di pochi convivevano con la disperazione delle numerose famiglie che consideravano perduti i figli affetti dalla dipendenza. Non si trattava soltanto di indagare, avrei dovuto toccare il dolore delle persone e questo mi spaventava”.
Com’è andata alla fine?
“Mi ha convinto il questore, dicendomi che, proprio in virtù di questa paura, avrei fatto bene il mio lavoro, arginando il fenomeno dal punto di vista criminale ma anche dando un contributo a livello sociale. Risale a quegli anni il mio impegno nelle scuole della provincia di Brindisi per sensibilizzare gli studenti sui danni fisici del consumo ma anche sul legame tra consumo e organizzazioni criminali. Quello che più spesso dicevo loro era che anche consumando semplicemente una canna si diventava strumenti della criminalità organizzata, che con quell’acquisto si sarebbe arricchita, mentre i ragazzi avrebbero rischiato la vita ad ogni dose”.
Quanto tempo è rimasto nell’antidroga?
“Circa vent’anni. Dopodiché, sono stato nominato vice dirigente della squadra mobile e mi sono occupato di quel lavoro di ricucitura tra le varie sezioni che si era reso necessario, visto che la Questura di Brindisi, nel frattempo, era cresciuta numericamente, differenziando ancora di più i vari ambiti di indagine”.
La sua indagine più difficile, non dal punto di vista poliziesco ma dal punto di vista umano.
“In quarant’anni ho visto di tutto, ma niente mi ha sconquassato come l’attentato alla scuola Morvillo-Falcone, in cui ha perso la vita Melissa Bassi e sono state atrocemente ferite le altre studentesse. All’epoca io ero il vice del dirigente della squadra mobile, il dottor Francesco Barnaba, e ho partecipato attivamente alle indagini. Era una bellissima mattina di maggio, quando sono stato chiamato dalla sala operativa. Il collega al telefono, inizialmente, mi ha detto che era esplosa una bomba davanti alla sede della CGIL, che si trova nei paraggi dell’istituto. Una volta arrivato, mi sono immediatamente reso conto che non si trattava del sindacato, ma della scuola. C’era l’inferno: libri e quaderni scompaginati, zaini smembrati, indumenti femminili strappati sparsi per tutto il piazzale, piccoli beauty-case dai quali uscivano tamponi e cosmetici. L’odore dell’esplosivo mischiato a quello della pelle ustionata era nauseante. Le ragazze urlavano, piangevano, si lamentavano. Ho visto Melissa entrare nell’autoambulanza, parlava ancora. Non dimenticherò mai la sua voce. Sono rimasto lì sino alle due e mezza del mattino del giorno successivo, anche se i rilievi da parte della scientifica erano terminati molto tempo prima. Ci è stato comunicato che durante la notte sarebbe arrivato il servizio di igiene urbana per ripulire il piazzale, ma non me la sono sentita di lasciare quel luogo ai netturbini. Così ho chiamato i miei uomini e ho detto loro di raccogliere tutto ciò che era rimasto per terra e di portarlo in questura, chiuso in scatoloni di cartone, perché prima o poi sarebbe arrivato il momento di riconsegnarlo alle persone colpite”.
A quel punto la scena del crimine era già in sicurezza: quel gesto appare più come una premura da papà che come l’estremo atto di indagine da parte di un poliziotto particolarmente diligente.
“È possibile che abbia pensato da papà, sì. In quel momento l’ho fatto istintivamente, non ho cercato una spiegazione. Mi è sembrato un ulteriore attentato spazzare via quegli oggetti personali come se fossero semplici rifiuti di cui liberarsi. Non erano spazzatura, erano cose appartenute a qualcuno che, forse, avrebbe avuto voglia di conservarle. Qualche tempo dopo, durante la restituzione, gli psicologi ci hanno spiegato che nell’elaborazione del trauma il riconoscimento degli oggetti era una tappa fondamentale. Siamo felici di essere stati utili non soltanto sotto l’aspetto investigativo, ma anche dal punto di vista psicologico”.

Per qualche giorno si è parlato di un atto dimostrativo ad opera della SCU, vista l’intitolazione della scuola e la circostanza che il giorno successivo da Brindisi sarebbe passata la carovana antimafia: lei ha creduto a questa ipotesi?
“Mai, non ci ho mai creduto. Le dico di più: ho espresso questa convinzione con molta chiarezza in una discussione molto accesa nel corso di una riunione nella quale, peraltro, ero l’unico a non essere funzionario. L’ho detto a chiare lettere che le cose non tornavano, che quello non era il modus operandi della criminalità organizzata nel nostro territorio, che bisognava indagare in altre direzioni”.
Ha conosciuto Giovanni Vantaggiato, l’autore dell’attentato?
“Sono stato con lui in silenzio per sei ore e mezzo, rinchiuso nel suo ufficio, mentre i colleghi perquisivano gli altri locali della sua azienda. Ha avuto per tutto il tempo un comportamento provocatorio, cercava di istigarmi ad una reazione violenta. Naturalmente non ho ceduto, ma è stato complicato da gestire, soprattutto perché nel frattempo avevo conosciuto le ragazze e il pensiero di avere davanti colui che aveva provocato loro tutto quel male me lo rendeva disprezzabile”.
A proposito di reazioni violente delle forze dell’ordine su persone sottoposte ad indagini o a custodia, di fronte a vicende come Bolzaneto o il caso Cucchi, qual è la reazione di un poliziotto per bene e di un sindacalista, quale lei è stato?
“Sarò onesto: io non ho vissuto sulla luna, sarei ipocrita se dicessi di essere sorpreso che cose del genere sono accadute e possano accadere. Però io ho sempre parlato in questi termini ai miei uomini: si tratta di comportamenti che, oltre ad essere illegali e da condannare senza appello, sono anche improduttivi e inconcludenti. Siamo professionisti, non è accettabile che ci facciamo prendere dalla rabbia o dalla disperazione. Ho sempre avuto riguardo per le persone che arrestavo e per i luoghi dove effettuavo gli arresti, specie se questi avvenivano all’interno di abitazioni private e alla presenza delle famiglie. Ancora adesso mi capita di incontrare per strada gente che ho ammanettato, con la quale ho rapporti di reciproco rispetto, persino cordiali con alcuni di loro”.
Giovanni Falcone diceva che i mafiosi sono uomini come noi: tra di loro ci sono i simpatici e gli antipatici. C’è un pregiudicato per il quale ha provato istintiva simpatia?
“Più di uno. Più che altro nel mondo della droga, ma anche nell’ambito della criminalità organizzata. Ci sono personaggi con i quali ho mantenuto un rapporto che nasce dalla “simpatia” umana per la persona. Una volta ho pedinato un grosso commerciante di droga, un tipo che viaggiava moltissimo per tutta l’Europa, il quale al telefono diceva al suo complice di non preoccuparsi, perché mai nessuno sarebbe riuscito a incastrarlo (“tranquillo, mica mi fregano”, ripeteva all’amico). Io ero in aeroporto, qualche passo dietro di lui. Quando lo abbiamo preso e gli ho riferito il contenuto di quella telefonata, da noi intercettata proprio mentre gli stavo attaccato, siamo scoppiati a ridere insieme. Non sarebbe stato possibile, se non ci fossimo trovati reciprocamente simpatici. Adesso è libero, è possibile che leggendo si riconosca e si faccia un’altra grassa risata!”.
In questi anni di servizio, hai mai avuto la percezione che vi fossero dei suoi colleghi che non erano schierati esattamente dalla sua stessa parte?
“Quello che posso dire è che io ho sempre potuto fare il mio lavoro, non mi è stato mai impedito. Quando ho avuto la sensazione che in qualche modo potessero ostacolarmi, sono stato testardo e alla fine ho raggiunto il risultato a cui volevo arrivare, malgrado le pressioni, anche interne, a cui mi sarei piegato se fossi stato meno forte. Per quello che riguarda gli uomini con i quali sono stato a più stretto contatto, non ho mai dubitato che fossimo tutti dalla stessa parte e che quella fosse la parte giusta”.
Non ne ha dubitato nemmeno quando, persino sulle cronache nazionali, a proposito dei metodi di indagine a dir poco discutibili di certe sezioni della nostra Questura, si cominciò a parlare di “sistema Brindisi”, cioè di una gestione patologica di alcuni uffici?
“In quella questione io mi sono immediatamente collocato, in controtendenza rispetto agli orientamenti di molti miei colleghi, a favore di chi si è esposto, pagando in prima persona, cioè l’ispettore Francesco Poci. Per questo il concetto di “sistema Brindisi” lo accetto soltanto se circoscritto ad un determinato periodo e a determinate persone. Per il resto, la nostra Questura è un organismo che, di fronte al virus di certi comportamenti deleteri, ha sviluppato i migliori anticorpi e si è ben difesa”.
Ci sono stati dei momenti in cui essere un poliziotto le è pesato?
“Sì. Ma la sofferenza viene sempre dalle singole persone, non dall’istituzione, alla quale io ho dato tanto, ma dalla quale sono stato totalmente ricambiato”.
La passione politica, invece, quando è emersa?
“C’è sempre stata. Durante gli anni della scuola superiore ero impegnato attivamente nel movimento studentesco e sono stato eletto rappresentante d’istituto all’industriale Majorana di Brindisi. Ho sempre frequentato le sedi di partito, sin da quando ho compiuto tredici anni. Naturalmente, entrando in Polizia, ho dovuto mettere da parte l’impegno politico, così questa passione si è tradotta nell’iscrizione al sindacato, il SIULP, nel quale ho ricoperto gli incarichi di segretario sezionale, componente del consiglio provinciale, segretario provinciale, componente del consiglio generale nazionale e del direttivo nazionale”.
Che San Vito ha trovato, quando è diventato sindaco, e che San Vito pensa di aver lasciato?
“Nel contesto della provincia brindisina, al netto del periodo del racket, San Vito è stato sempre un paese povero. Basti pensare che il nostro bilancio era circa un terzo di quello di Carovigno. Comunque, quando io l’ho preso in mano, era in una situazione economica disastrosa, con uno sforamento del patto di stabilità in atto. Per cui, come amministrazione, ci siamo concentrati sul risanare quell’aspetto, cercando di fare un lavoro di ristrutturazione della macchina comunale che tenesse nel lungo periodo. Sono stati tre anni di grande sofferenza, poi negli ultimi due anni abbiamo avuto bilanci positivi. Credo che alla fine siamo riusciti a consegnare alla nuova giunta una San Vito economicamente più stabile e meglio proiettata nel futuro. Abbiamo lasciato progetti esecutivi per quarantadue milioni e mezzo di euro, ma purtroppo quello che i miei concittadini ricorderanno è che abbiamo tirato la cinghia per sistemare i conti invece che spendere più soldi per sistemare le strade”.
Come immagina che saranno questi anni senza lavorare?
“Sicuramente trascorrerò più tempo con mia moglie e le mie figlie, a cui forse in questi anni ho sottratto un po’ di attenzioni. Poi coltiverò il mio interesse per la lettura: da novembre ad oggi ho letto venticinque libri e spero di mantenere questo ritmo. Anni fa mi fu proposto di far parte di un centro d’ascolto per tossicodipendenti, ma io, in quanto capo dell’antidroga, rifiutai per evitare il rischio di sovrapporre il volontariato alle questioni lavorative. Chissà, magari è un discorso che si può riprendere. Certamente non starò fermo per troppo tempo, non ne sono capace!”.