
Di Gianmarco Di Napoli per il numero 396 de Il7 Magazine
Nel periodo più cruento e sanguinario della storia criminale salentina, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Duemila, gli omicidi rappresentavano il metronomo di una neonata organizzazione mafiosa, chiamata Sacra Corona unita, in cui l’eliminazione fisica dell’avversario rappresentava lo strumento principale per affermare il proprio potere e per risolvere, sbrigativamente e in maniera “rumorosa”, i dissidi. Quasi sempre gli omicidi di mafia non avevano soltanto l’obiettivo di colpire la vittima designata, anzi questo era spesso solo un aspetto secondario: essi miravano a inviare un messaggio preciso a tutti gli altri, ad intimidire la collettività. Ucciderne uno per spaventarne cento.
In quegli stessi anni, parallelamente a quelli di mafia, si verificavano con una periodicità anch’essa da metronomo, omicidi che nulla avevano a che fare con le organizzazioni criminali: ricordo decine di liti familiari, di vicinato o di natura sentimentale risolte a colpi d’arma da fuoco.
Quando da cronista di nera partivo in auto per raggiungere il luogo di un delitto, la prima discriminante, giunto sul posto, era quella di definire se si trattasse o meno di un omicidio di mafia. E, senza avventurarmi in acrobatiche statistiche che non sarebbero assolutamente precise, posso azzardare che ogni tre-quattro morti per la guerra di mala si verificava un omicidio “comune”, ambientato in quella che poteva essere definita la “società civile”.
Negli anni successivi, quando la Sacra corona aveva esaurito il suo potenziale omicida ed era stata risucchiata nelle patrie galere grazie a uno straordinario lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, sono scomparsi quasi del tutto i delitti di mafia e si sono pressoché azzerati anche quelli “comuni”, rientrati nelle statistiche ordinarie nazionali.
Non è possibile che si tratti di una mera coincidenza, ma molto più verosimilmente di due fenomeni direttamente collegati. Da un lato per meccanismi emulativi, dall’altro per una diffusa legittimazione sociale.
Gli atti compiuti dalle organizzazioni criminali sono spesso interpretati dalla gente come modelli per la risoluzione delle controversie o di affermazione del potere personale, soprattutto in contesti sociali in cui lo Stato viene percepito come inadeguato o troppo lontano. Il meccanismo emulativo viene amplificato dal fatto la che il racconto di quei delitti di mafia diventa quasi una normale quotidiantà.
Il secondo aspetto è legato al fatto che negli ambienti in cui l’uso delle armi è frequente e tollerato, esiste una forma di normalizzazione della devianza in cui l’atto di violenza non rappresenta un’eccezione ma una soluzione legittima e inevitabile. Si arriva così a una realtà in cui l’omicidio viene sdoganato e considerato come una soluzione plausibile e utilizzabile.
Una simile riflessione può essere applicata ai primi anni Novanta. Tra il 1991 e il 1992 Brindisi fu falcidiata dagli attentati dinamitardi: una media di uno o due alla settimana. Attività commerciali devastate, ma anche abitazioni, auto, uffici. Il racket, si disse. E in parte era vero. Ma dietro quella sequenza di attentati, lo si è saputo molto tempo dopo, non c’erano solo le organizzazioni criminali che imponevano il pizzo ai negozianti, ma anche chi approfittava di quella sorta di guerra civile per regolare le proprie faccende personali: la polvere da mina e una miccia erano reperibili ovunque, accenderla era semplicissimo. Così una parte di quegli attentati dinamitardi in realtà non erano stati decisi dalla frangia brindisina della Sacra corona e non erano stati eseguiti da criminali “professionisti”.
In questo caso, oltre allo spirito emulativo e alla legittimazione implicita, va considerato anche l’opportunismo di sapersi infilare in una situazione caos e confondere le tracce. Come era avvenuto quando durante la guerra di mafia, alcuni delitti erano stati “apparecchiati” per sembrare maturati in ambienti criminali quando in effetti non lo erano.
Tutto questo potrebbe essere utile per interpretare ciò che sta avvenendo negli ultimi mesi in provincia di Brindisi ma anche nel resto della Puglia, in Salento soprattutto ma anche, ultimamente a San Giovanni Rotondo. Non sono ripresi gli omicidi di mafia, per fortuna, e neanche gli attentati dinamitardi, anche se ci sono frequenti esplosioni provocate dagli assalti ai bancomat. Questo è il periodo degli incendi.
Il più clamoroso è stato quello che ha distrutto il negozio Punto Luce a San Vito dei Normanni, per certi versi persino più grave quello avvenuto l’altra sera a Oria dove le due auto in dotazione alla polizia locale sono state date alle fiamme. Ma ricordiamo la molototov davanti allo studio di un consulente del lavoro di Villa Castelli, l’auto bruciata a un avvocato nel centro di Cellino San Marco, quella a Latiano con annesso danneggiamento di un’abitazione. Tutto in poche settimane.
Un aspetto è quasi certo: nessuno tra questi episodi ha alcun collegamento con gli altri. Non esiste una matrice unica, una strategia comune, un obiettivo destabilizzante, un tentativo del racket di imporre le proprie condizioni o della criminalità organizzata di affermare la sua presenza. Più probabilmente, l’arma dell’incendio rappresenta in questo momento il sistema (emulativo) più semplice ed efficace da utilizzare perché può essere compiuto con materiale reperibile e in un contesto in cui qualsiasi azione può essere confusa con l’altra. E in fondo ci sta quasi abituando (normalizzazione della devianza).
La prova è che, ad esempio, l’attentato incendiario al negozio di alimentari del rione Perrino, che non ha alcuna attinenza con la criminalità (che comunque il quel quartiere non oserebbe mettere piede) è stato compiuto da un inetto che nel tentativo di dare fuoco alla benzina che aveva versato davanti all’ingresso con un tovagliolo di carta ha rischiato di trasformarsi in una torcia umana, come documentato dalle telecamere.
Quali possono essere le contromosse? Sul piano investigativo, non dobbiamo certo suggerirlo noi, è auspicabile che le indagini sui singoli episodi (almeno quelli più gravi, come San Vito e Oria) portino rapidamente all’individuazione dei colpevoli. Sul piano normativo, sarebbe opportuno un inasprimento delle pene per chi è responsabile di incendi dolosi, con aggravanti da parificare a quelle di chi appicca roghi boschivi perché spesso viene messa in pericolo l’incolumità delle persone. Sul piano civile è necessario tentare di sradicare lo spirito emulativo e soprattutto la normalizzazione della devianza. Che ormai ci porta a considerare il bollettino del mattino, quello delle auto bruciate, un’abitudine come quella alle previsioni meteo.