Sacra corona, da mafia imprenditoriale a commerciale: il rischio ‘ndrangheta

di GIANMARCO DI NAPOLI

Nella sua disperata ricerca di una identità perduta da tempo, ciò che resta della Sacra corona unita sopravvive dedicandosi all’ultima attività criminale davvero redditizia che ancora ha un suo mercato fiorente e che è nelle condizioni di portare avanti: il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti. La mafia salentina non ha mai avuto tra i suoi ranghi (tranne rarissime eccezioni) personaggi il cui lo spessore cultural-criminale consentisse di infiltrarsi in maniera concreta in affari più importanti e che richiedono conoscenze e capacità manageriali di un certo livello, come ad esempio l’infiltrazione negli appalti pubblici e la pressione sulle pubbliche amministrazioni. Nei casi in cui i consigli comunali sono stati sciolti per presunti legami con la criminalità organizzata (gli ultimi sono stati Carovigno e Ostuni) le irregolarità contestate – così labili da non portare poi neanche a condanne penali – riguardavano singoli episodi che non delineavano affatto l’interferenza effettiva della mafia sugli affari del palazzo.
E la malavita organizzata salentina non è riuscita a inserirsi nel vero business criminale del nuovo millennio: il traffico illecito di rifiuti, settore nel quale si sono catapultate da tempo le due organizzazioni in questo momento più attive, ossia la ‘ndrangheta e la camorra. Seppellire rifiuti o disperderli nelle campagne o in mare, è divenuta una enorme fonte di guadagno e comporta pochi rischi.
Il ridimensionamento della Sacra corona unita consolidatosi negli ultimi anni è legato a due fattori determinanti, di natura diversa. Il primo riguarda lo smembramento quasi totale dei vertici dell’organizzazione: dalla metà degli anni Novanta, le condanne pesantissime in Tribunale e in Corte d’assise e il numero considerevole di collaboratori di giustizia, hanno decapitato non solo i vertici dell’organizzazione ma, a pioggia, anche i loro luogotenenti e quasi tutti i personaggi che avevano ambizioni di comando.
Il secondo fattore, ancora più duro per l’economia della Scu, è rappresentato dalla fine del contrabbando di sigarette. La mafia salentina si era accreditata sin dall’inizio come una associazione “imprenditoriale”, con un know-how che l’aveva resa potentissima non solo a livello nazionale ma anche internazionale: il monopolio del contrabbando di tabacchi lavorati esteri, il business criminale più importante negli anni Ottanta e Novanta, sottratto in quei due decenni, per mutamenti geografici sulle possibilità di approvvigionamento, a chi lo aveva inventato, cioè addirittura la camorra napoletana. Cioè l’organizzazione mafiosa in antitesi alla quale era stata fondata la Scu.
Quando l’unico sistema per trasportare in Italia le Marlboro prodotte nell’est europeo era diventato farle navigare sul mare Adriatico lungo la rotta più breve, gli storici contrabbandieri brindisini erano stati inglobati (quasi sempre sotto minaccia) dalla Sacra corona che aveva avuto la capacità non solo di diventare l’unico interlocutore in Italia per le organizzazioni interessate a commerciare sigarette di contrabbando, ma soprattutto per le multinazionali (come la Philip Morris) che producevano le bionde e addirittura con i governi che si prestavano a ospitare i depositi di sigarette sull’altra sponda dell’Adriatico, prima che esse fossero trasportate a bordo degli scafi blu in Puglia. In primo luogo il Montenegro.
In quel periodo in cui raggiunse l’apice del suo potere economico e criminale, la SCU era un’azienda imprenditoriale che fatturava centinaia di miliardi di lire all’anno e che non si sentiva in secondo pianto rispetto alle altre organizzazioni criminali. Quando il contrabbando funzionava, tutte le altre attività illecite erano per questo solo una specie di corollario. E il traffico e lo spaccio di droga, aborriti tra i comandamenti dei padri fondatori della mafia salentina, venivano delegati a bande specializzate negli stupefacenti e slegate dai clan organizzati.
Con la fine del contrabbando, la Scu ha dovuto trasformarsi da azienda imprenditoriale in attività commerciale, mettendo le mani sul tanto disprezzato business degli stupefacenti, unica possibile fonte di guadagno. Con una differenza sostanziale: mentre con le sigarette l’organizzazione faceva impresa, gestendone il monopolio e costringendo le altre mafie ad arrivare a patti per il rifornimento, con la droga la Sacra corona ha dovuto sottomettersi necessariamente al mercato e ai suoi fornitori: la marijuana e l’hascisc sono gestiti saldamente dalla mafia albanese, la cocaina e l’eroina dalla ’ndrangheta. Così l’organizzazione non può far altro che acquistare da altri e vendere sul mercato, facendo valere la propria (ridimensionata) forza coercitiva sulla gestione delle piazze di spaccio e sull’obbligo fatto ai pusher di rifornirsi in esclusiva dai clan, ai pezzi imposti.
Briciole rispetto agli utili garantiti dal traffico di sigarette e rischi molto più pesanti perché l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti prevede pene molto vicine a quelle riservate ai mafiosi e non a caso è perseguita dalla Dda e non delle procure ordinarie.
Così i vecchi boss sono costretti a scendere a patti con le altre organizzazioni mafiose e addirittura ad affiliarsi a loro per sopravvivere. Come accaduto a Giovanni Donatiello, mesagnese, uno dei fondatori della Scu. Secondo le indagini che qualche giorno fa hanno portato all’arresto da parte della polizia di Brindisi di 14 persone accusate di traffico di droga con collegamenti mafiosi, Donatiello ha preferito affiliarsi a Ciccio Barbaro, boss dell’omonima ‘ndrina di Platì, con la dote di capo crimine. Con questi nuovi galloni e attraverso i suoi affiliati, “Cinque lire” avrebbe gestito in parte della provincia di Brindisi il traffico di stupefacenti e le estorsioni. Proprio lui che fu tra i primi a condannare chi consumava droga e chi la vendeva, in quello spirito pseudosociale del quale si era ammantato inizialmente la Sacra corona. In realtà era stata una scelta dovuta alla consapevolezza dei danni che gli spacciatori, quasi sempre anche consumatori di droga, potevano causare una volta arrestati per le inevitabili crisi d’astinenza. Proprio uno dei più noti pusher della fine degli anni Ottanta, il latianese Cosimo Capodieci, ingenuamente affiliato con una posizione di comando e nelle condizioni di conoscere alla perfezione tutti i segreti della neonata Sacra corona unita, pose le basi per la sua distruzione, trasformandosi nel primo vero pentito.
L’operazione dei carabinieri della scorsa estate, che ha sgominato il clan Lamendola-Cantanna, e quella di martedì della squadra mobile hanno ridisegnato le mappe di una criminalità organizzata che ha smesso di fare la guerra e che cerca di trovare equilibri per la gestione della droga. Non esiste più una struttura dominante in grado di assumere il comando centrale con la forza, non essendoci più boss che abbiano l’autorevolezza per poter elevarsi su tutti. Lo stesso Francesco Campana, il più rampante tra capi i mesagnesi, è stato notevolmente ridimensionato dal pentimento dei suoi due fratelli (uno dei quali si è poi tolto la vita) e costretto addirittura a scrivere una lettera di scuse all’organizzazione per l’onta di quel tradimento dal quale si è dissociato ma da cui è uscito inevitabilmente indebolito.
Qual è dunque il futuro della Sacra corona unita? E’ probabile che con il trascorrere degli anni anche ciò che resta di quel “brand” mafioso possa perdere ulteriormente consistenza, lasciando sempre più spazio ai singoli clan che si muovono su scala locale. E siccome una volta che il territorio si libera dal controllo criminale organizzato c’è sempre chi è pronto a subentrare, il pericolo è che proprio le mafie leader nel traffico di stupefacenti possano mettere le radici in questo territorio, sfruttando i collegamenti già creati e inglobando i malavitosi indigeni, come la Scu fece con i contrabbandieri: potrebbe tentare di farlo quella albanese, sempre più presente e radicata su questa sponda sull’Adriatico, o molto più probabilmente la ’Ndrangheta, la più potente mafia del mondo che potrebbe tentare (se non lo sta già facendo) di prendere il controllo della preziosa costa adriatica, con collegamento diretto verso i Balcani per i traffici di droga, e sfruttare magari questa terra ancora quasi incontaminata per i traffici di rifiuti da sotterrare.
Ecco perché non si deve incorrere nell’errore di considerare la Direzione Distrettuale Antimafia una struttura ormai superata o che ha un ruolo meno rilevante rispetto al passato sol perché la Sacra corona si è innegabilmente ridimensionata.
Paradossalmente, in questo periodo di transizione criminale, l’attenzione deve essere invece moltiplicata: si parte infatti da una situazione le cui dinamiche erano ormai chiare e in cui mutavano soltanto i protagonisti, ma seguendo un copione ormai collaudato da trent’anni, a un processo di transizione che potrebbe portare a presenze criminali ancora più inquietanti e difficili da combattere, perché dotate di una struttura organizzativa molto più complessa, sia sul piano malavitoso che su quello imprenditoriale. E se la ’ndrangheta dovesse colonizzare anche questa terra, i problemi sarebbero molto più complessi del peggiore passato.
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