Scacco al clan SCU di San Vito dei Normanni: la sentenza nel momento più difficile della città

Di Marina Poci per il numero 394 de Il7 Magazine
La sentenza è arrivata nei giorni in cui San Vito dei Normanni vive uno dei suoi momenti più complicati dal periodo in cui era quotidianamente preda delle estorsioni: mentre le forze dell’ordine indagano sull’attentato incendiario che ha distrutto la rivendita di materiale elettrico “Punto Luce” e sui precedenti tre subiti negli scorsi anni dagli stessi proprietari, la presenza dello Stato si manifesta con la sentenza emessa lunedì 11 marzo dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce Alcide Maritati, che ha irrogato pene pari a duecentosettanta anni di reclusione nei confronti dei trentuno imputati ammessi al rito abbreviato presunti appartenenti al clan Lamendola-Cantanna, consorteria mafiosa di derivazione mesagnese della Sacra Corona Unita, attiva sul territorio provinciale, e in particolar modo proprio a San Vito dei Normanni.
Il clan, a capo del quale vi sarebbe Gianluca Lamendola, fu scompaginato dalle indagini dei Carabinieri, coordinate dalla PM della Direzione Distrettuale Antimafia Carmen Ruggiero, al termine dell’inchiesta passata alle cronache come “The Wolf” (così chiamata perché “Lupo” era il nome di battaglia, ai tempi in cui prestava servizio nel ROS, del tenente Alberto Bruno, all’epoca comandante del NORM della locale Compagnia, guidata prima dal capitano – ora maggiore – Antonio Corvino e poi dal capitano Vito Sacchi).
Il magistrato ha disposto anche la confisca di tutto quanto in sequestro (somme di denaro, una Volkswagen Touareg, una Fiat 500, due motociclette Quad, una moto Piaggio ed una Honda), nonché di Hielke, il cavallo maschio castrone di razza frisone sul quale il presunto capo amava spostarsi per le sue proprietà nel solco della “migliore” tradizione criminale che vede il cavallo come simbolo del potere e della fierezza del boss. L’animale, affidato all’Arma dei Carabinieri, è stato trasferito presso la Riserva Naturale Statale “Murge Orientali” di Martina Franca, dove verrà impiegato in attività educative tese a diffondere la cultura della legalità, in particolar modo tra gli studenti in visita.
Con la sentenza (le cui motivazioni saranno depositate in novanta giorni), inoltre, sono state revocate le indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione di invalidità civile per i condannati per associazione mafiosa che ne fossero beneficiari. Tutti i coinvolti nell’inchiesta, inclusi coloro che hanno optato per il giudizio ordinario, senza il beneficio dello sconto di un terzo della pena che consegue alla scelta del rito abbreviato, rispondevano a vario titolo, oltre che di associazione di tipo mafioso, di traffico di stupefacenti, tentato omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione, ricettazione, danneggiamento e autoriciclaggio, tutti aggravati dal metodo mafioso.
Il trattamento sanzionatorio più severo è stato naturalmente comminato agli uomini ritenuti al vertice dell’organizzazione: vent’anni di reclusione dunque per Gianluca Lamendola, 36 anni, nato a Mesagne, nipote – in quanto figlio della figlia Ivana – dello storico boss ultrasettantenne della SCU messapica Carlo Cantanna. Sfuggito al blitz del 18 luglio 2023, grazie al quale il gruppo fu decapitato, Lamendola fu poi localizzato e catturato il 18 novembre 2023 in un appartamento di uno stabile di Correggio, provincia di Reggio Emilia, in una complessa operazione a cui presero parte, oltre ai Carabinieri del Comando Provinciale di Brindisi e della Compagnia di San Vito dei Normanni, anche i loro colleghi del Comando Provinciale del capoluogo emiliano. Vent’anni anche al padre Cosimo (53 anni, residente a Brindisi), ad Adriano De Iaco (35 anni, sanvitese) e a Domenico Fanizza (43 anni, di Fasano).
Condannato anche Pancrazio Carrino, 42 anni, di San Pancrazio Salentino: 12 anni e 4 mesi di reclusione per lui che, parallelamente, sta affrontando un procedimento in relazione alle minacce aggravate dal metodo mafioso rivolte alla PM titolare del fascicolo, Carmen Ruggiero, e alla Giudice per le indagini preliminari Maria Francesca Mariano, che firmò l’ordinanza di applicazione delle misure cautelari contro il clan. Minacce che vanno dalla testa di capretto mozzata e insanguinata, fatta trovare davanti alla porta dell’abitazione della Giudice Mariano insieme ad un coltello e a un biglietto in cui era scritto “Così”, al tentativo di uccidere la PM Ruggiero nel corso dell’interrogatorio nel carcere di Lecce in cui, fingendo di voler collaborare, aveva invece intenzione di tagliare la giugulare della magistrata con un coltello artigianale fabbricato in ceramica (che gli fu sottratto appena in tempo proprio da “The Wolf”, il tenente Bruno, accortosi delle manovre di Carrino).
Condannati anche Pietro Aprile (47 anni, due anni e 4 mila euro di multa); Luca Balducci (41 anni, otto anni); Roberto Calò (42 anni, 13 anni e sei mesi); Rosario Cantanna (51 anni, undici anni e dieci mesi); Angelo Potenzo Cardone (38 anni, dodici anni e sei mesi); Francesco Ciciriello (44 anni, un anno); Maurizio D’Apolito (48 anni, nove anni e dieci mesi); Alessandro Elia (41 anni, dieci anni); Palmiro Pancrazio Lacatena (47 anni, cinque anni e 20 mila euro di multa); Renato Loprete (49 anni, undici anni); Bryan Maggi (35 anni, dieci anni); Gionathan Manchisi (44 anni, 13 anni e quattro mesi); Adriano Natale (43 anni, due anni); Domenico Nigro (25 anni, undici anni e dieci mesi); Giovanni Nigro (56 anni, undici anni e sei mesi); Giuseppe Prete (51 anni, tre anni e 16 mila euro di multa); Angelo Roccamo (79 anni, dieci anni); Giulio Salamini (46 anni, cinque anni e 30 mila euro di multa); Vincenzo Schiavone (47 anni, cinque anni); Francesco Turrisi (49 anni, dieci anni); Domenico Urgese (44 anni, tre anni e due mesi e 3 mila euro di multa); Noel Vergine (37 anni, undici anni).
L’inchiesta “The Wolf”, prese avvio dal tentato omicidio di un sorvegliato speciale avvenuto il 5 luglio del 2020 a Latiano, allargandosi poi a macchia d’olio e portando all’attenzione degli investigatori una consorteria criminale di particolare pericolosità, dedita prevalentemente ad attività legate allo spaccio di droga e alle estorsioni e operativa nei comuni brindisini di San Vito dei Normanni, Mesagne, Carovigno, San Pancrazio Salentino, Torre Santa Susanna e Fasano, nei capoluoghi di Brindisi, Lecce, Taranto, Foggia, Trani e nel comune barese di Corato.
In questo contesto, la figura di Gianluca Lamendola, unto del nonno Carlo Cantanna e da lui predestinato al ruolo di leader, emerge in tutta la sua piena statura delinquenziale – paradossalmente – per l’assenza di denunce a suo carico, oltre che a carico degli altri componenti del clan, prova della forza di intimidazione che l’uomo era in grado di esercitare sul territorio (il cui controllo acquisiva con l’utilizzo di metodi violenti e armi, determinando la condizione di assoggettamento e omertà propria esclusivamente degli associati di livello apicale). Un boss vecchio stampo, Lamendola, che proibiva il consumo di droga agli affiliati, operava secondo un codice interno di rispetto delle regole che rimanda alle prime fasi della costituzione della SCU e amava manifestare pubblicamente il proprio potere su associati e vittime attraverso l’incisione sulla spalla destra, con un coltello, di una stella, come fossero capi di bestiame su cui il mandriano imprime il marchio che ne battezza lo status.
Nel processo in abbreviato nessuno dei tredici Comuni brindisini coinvolti nel dominio del clan, e individuati dai magistrati come parti offese, si costituì parte civile. Una circostanza che non mancò di sollevare polemiche in diversi consigli comunali (in particolar modo a San Vito dei Normanni): l’unica parte civile presente nel processo è stata l’associazione “Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie)”, fondata e presieduta da don Luigi Ciotti, alla quale è stato riconosciuto un risarcimento di centomila euro.
Nei giorni precedenti all’udienza preliminare, Libera precisò con una nota diffusa ai mezzi stampa l’urgenza di “riportare l’attenzione della società civile sulle dinamiche criminali in atto” e “chiedere un rinnovato impegno della cittadinanza e delle istituzioni nella promozione e nel consolidamento in maniera congiunta dei percorsi di cambiamento sociale in tutto il territorio”, in un momento “in cui si avverte la sensazione di una preoccupante sottovalutazione, da parte della politica e delle istituzioni locali, nel doveroso impegno della lotta contro le mafie”, anche alle luce delle minacce ricevute dalle due magistrate, Ruggiero e Mariano, che tuttora vivono sotto scorta.