Di Marina Poci per il numero 367 de Il7 Magazine
Arriva ad uno snodo decisivo il procedimento penale contro il regista canadese Premio Oscar settantunenne Paul Haggis, per il quale l’aggiunto della Procura della Repubblica di Brindisi Antonio Negro e i sostituti Livia Orlando e Gualberto Buccarelli hanno chiesto l’archiviazione dell’accusa di violenza sessuale, mossagli da una trentenne inglese che nell’estate del 2022 trascorse con l’uomo tre notti in un b&b di Ostuni in occasione dell’Allor Fest: nella camera di consiglio del 19 settembre, dinnanzi alla Giudice per le indagini preliminari del Tribunale messapico Vilma Gilli, i legali Michele Laforgia, peso massimo dell’avvocatura penale pugliese, e Ilaria Boiano di Differenza Donna, associazione nata a Roma nel 1989 con l’obiettivo di far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza di genere, discuteranno della possibilità – o meno – che gli elementi acquisiti nel corso della fase di indagine consentano di formulare una ragionevole ipotesi di condanna.
Haggis e la giovane si erano conosciuti alcuni mesi prima a Montecarlo, durante una rassegna cinematografica: qualche tempo dopo lei lo raggiunse a Ostuni, soggiornando dal 12 al 15 giugno in una struttura nella quale condivisero la stessa stanza ed ebbero rapporti sessuali. Consenzienti, secondo Haggis, che ha sempre sostenuto di non avere abusato della donna. Frutto di violenza, secondo quanto asserito dalla denunciante, che, dopo i presunti abusi, fu condotta dal regista all’aeroporto Papola Casale di Brindisi e lasciata lì all’alba, in uno stato di forte prostrazione e in condizioni fisiche tanto precarie da richiedere il ricovero presso l’ospedale Perrino. Nel nosocomio fu attivato il Protocollo Rosa (il percorso dedicato alle vittime di violenza sessuale, che prevede, oltre al supporto sanitario, anche quello psicologico, e l’immediato coinvolgimento delle forze dell’ordine). Haggis fu arrestato e posto ai domiciliari dal 19 giugno al 4 luglio 2022, quando, all’esito dell’incidente probatorio che aveva cristallizzato le dichiarazioni della giovane, alla Giudice Gilli (la stessa chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione) sorsero dubbi sulla attendibilità della donna. La Procura di Brindisi, evidentemente convinta della genuinità della denuncia, impugnò la decisione della Gilli sulla scarcerazione, ma il Tribunale del Riesame sposò la tesi della magistrata. E alla fine anche l’aggiunto e i sostituti hanno ritenuto che non vi fossero gli estremi per sostenere l’accusa in giudizio, propendendo per chiedere che il fascicolo venga archiviato.
È stata l’avvocata Boiano a opporsi alla richiesta di archiviazione della Procura brindisina, sulla scorta della considerazione, precisata in una nota diffusa ai mezzi di informazione lo scorso marzo, che “le argomentazioni giuridiche e fattuali alla base della richiesta di archiviazione non sono coerenti con la più recente giurisprudenza di legittimità in materia di violenza sessuale e consenso della vittima” e, ancora, che “l’indagine è stata interamente dedicata ad approfondire la personalità e le scelte della donna, mentre è la condotta dell’indagato che doveva essere approfondita. La vittima si è opposta alla richiesta di archiviazione, pertanto, per ribadire il valore insuperabile del suo dissenso dinanzi alle condotte ai suoi danni dell’indagato dinanzi alle quali lo Stato non può rimanere indifferente”.
Senza entrare nel merito della delicata vicenda processuale, ancora sub iudice, che coinvolge la sua assistita, Boiano ha accettato di rispondere alle nostre domande per fare il punto sugli ultimi approdi giurisprudenziali in materia e ragionare a tutto tondo sui temi del consenso, della violenza istituzionale e della vittimizzazione secondaria.
A circa cinque decenni da Processo per stupro, il documentario che per la prima volta mandò in onda sulla televisione di Stato il tema della violenza sessuale, le cronache giudiziarie ci fanno intendere che poco o niente sia cambiato: è ancora la donna ad essere processata per prima.
“Purtroppo è un’impostazione ancora molto diffusa. È vero che, per qualsiasi reato, le dichiarazioni di una persona denunciante devono essere valutate nella loro attendibilità, ma l’operazione a cui assistiamo nelle nostre aule è proprio l’errore logico di spostare l’attenzione sulla vittima del reato. E quando si tratta di reati che attengono alle relazioni uomo-donna (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti persecutori tra partner o ex partner), l’attenzione per la persona offesa diventa ossessiva e supera i canoni indicati dalla Corte di Cassazione. La sesta sezione, in una sentenza molto chiara, si è espressa su questa operazione, sbagliata logicamente e giuridicamente. Il punto è che la fattispecie di violenza sessuale, così come è costruita, alimenta un accertamento processuale basato sulla vittimizzazione della persona offesa”.
In che modo la costruzione codicistica della norma induce questi paradossi di colpevolizzazione della vittima?
“Perché la norma è costruita ancora su un immaginario risalente che si basa sulla resistenza fisica: “chiunque con violenza o minaccia costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”, si legge nel codice. Questa costruzione si concentra su elementi della condotta che richiamano ad un accertamento approfondito delle reazioni della vittima. Il problema è che questo accertamento, che potrebbe essere condotto in maniera non offensiva, diventa tanto esteso da ampliare l’approfondimento alle condotte pregresse, attuali e successive della vittima”.
Laddove, invece, l’attività di accertamento dovrebbe focalizzarsi sul consenso, prestato o meno dalla vittima, durante la consumazione dell’atto sessuale. Non su quanto la persona offesa abbia detto o fatto prima o dopo.
“Esattamente. E, tra l’altro, si applicano logiche che si ritengono di esperienza, interpretazioni di comportamenti che sono letti come comuni, ma che in realtà risentono di una visione maschilista dei rapporti tra uomo e donna”.
Possiamo dire che dal punto di vista legislativo il passo ulteriore e necessario è quello di elaborare una norma che concentri l’accertamento processuale sul consenso senza prestare il fianco a deviazioni su condotte (anche molto) precedenti e successive?
“Possiamo e dobbiamo dirlo. È l’indicazione che ci viene dal Comitato CEDAW (ndr: Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna), che da anni raccomanda all’Italia di modificare in termini la norma sulla violenza sessuale. E la stessa raccomandazione ci arriva dalla Convenzione di Istanbul”.
In che modo il legale che assiste la persona offesa può ridurre fenomeni di vittimizzazione secondaria nel procedimento per violenza sessuale?
“Sicuramente la priorità è quella di garantire che in tutti i contatti con le forze dell’ordine e le autorità la vittima sia accompagnata dal proprio avvocato. Devo purtroppo dire che non sempre ci è consentito di restare accanto alla persona offesa in tutte le fasi dell’indagine, ma noi cerchiamo di pretenderlo. Perché non è soltanto nelle aule di tribunale che le donne si sentono rivolgere domande offensive e sessiste, tante volte si comincia da molto prima. Inoltre, come avvocati di donne vittime di violenza, maltrattamenti e atti persecutori, cerchiamo di esercitare per le nostre assistite il diritto ad una informazione completa durante tutto il corso del procedimento. Spesso, benché la norma lo preveda, alla donna non viene notificata l’intera ordinanza che applica la misura cautelare, ma soltanto l’avviso che dà atto dell’applicazione. In questo modo, però, la donna non può rendersi conto delle ragioni della decisione. Noi ci battiamo affinché questa prassi venga superata. E, soprattutto, vigiliamo affinché, durante il processo, la vittima non debba rispondere a domande che vanno oltre l’oggetto dell’approfondimento e si spingono a indagare aspetti della vita che non rilevano ai fini della ricostruzione dei fatti. Infine, ci impegnamo a veicolare attraverso i nostri atti la non tollerabilità di determinate argomentazioni difensive. Dalle difese degli indagati e imputati le donne vengono ancora definite pazze, isteriche, ossessive, pur di minare l’attendibilità delle loro dichiarazioni”.
Per quella che è la sua esperienza, nei fenomeni di colpevolizzazione della persona offesa quanto conta la mancata formazione specifica degli operatori delle forze dell’ordine e dei magistrati in materia di reati consumati contro le donne?
“Purtroppo è un fattore importantissimo. Il nodo per l’Italia, come si desume dalle sentenze della Corte di Strasburgo e da tutte le raccomandazioni degli organismi che vigilano sull’attuazione del convenzioni sottoscritte, è proprio quello di realizzare una formazione a tappeto, sostenuta da risorse stabili, che coinvolga i centri antiviolenza e le case rifugio. Solo così sarà possibile sovvertire la logica che porta a processare la vittima invece che l’imputato”.
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